Abbiamo parlato di quanto sta succedendo all’Università di Catania. Riportiamo un intervento da Università bene Comune che aggiorna sulla situazione.
In pochi giorni ben 675 universitari hanno firmato la petizione di solidarietà con i colleghi dell’Università di Catania, a questo link, manifestando il loro dissenso alle “linee guida disciplinari” approvate dal loro CdA: purtroppo però pare che 675 firme non bastino ancora a far prevalere la ragione.
Il Prof. Bruno Caruso, ordinario di Diritto del Lavoro ad UniCt, si è infatti sentito in dovere di difendere l’indifendibile. In un “intervento” inoltrato dal rettore Recca a tutto l’ateneo catanese (che trovate in calce), Caruso rivendica la piena legittimità delle linee guida: proprio quelle che vietano ogni forma di dibattito pubblico o di diffusione di informazioni in merito a procedimenti disciplinari, pena la sospensione fino a sei mesi dello stipendio.
Per Caruso, il concetto giuridico innovativo è quello dell'”agglutinazione”: “Nelle ipotesi di procedimenti disciplinari non si pone, dunque, un problema di tutelare la libertà di manifestazione del pensiero perché gli ordinamenti sezionali predispongono regole e principi speciali che l’agglutinano.”
Caruso ovviamente non teme i paradossi, e giunge serenamente ad ipotizzare che si “potrebbe pure argomentare che nelle ipotesi di procedimenti disciplinari nei confronti di funzionari pubblici, il dovere di fedeltà e di obbedienza sancito dalla Costituzione finisca per prevalere sul diritto di libera manifestazione del pensiero.”
Morale della favola: 675 firme non bastano ancora a ricacciare indietro i rigurgiti autoritari. Persone come Recca e Caruso non si fermano di fronte ad quisquilie come la ragione e la giustizia: temono solo la pubblicità negativa.
Se non avete ancora firmato la petizione, firmatela: se non l’avete ancora inoltrata, inoltratela. Difendere i colleghi di Catania significa difendere la dignità di ogni ateneo italiano: sappiamo bene che personaggi come Recca e Caruso non sono (purtroppo) un’esclusiva dell’ateneo catanese.
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Intervento del Prof. Bruno Caruso
Può un consiglio di amministrazione di un ateneo emanare linee guida per indicare il comportamento da tenersi durante lo svolgimento di un procedimento disciplinare nei confronti di un docente universitario? Si possono, attraverso tali linee guida, condizionare i comportamenti, per esempio di protesta contro un procedimento in corso, di soggetti coinvolti, ma pure non coinvolti, in tale procedura?
Considerare, anche in astratto, perseguibili tali comportamenti “esterni” (pubblici dibattiti, pubbliche critiche, pubbliche mozioni, ecc.) non costituisce una lesione della libertà di manifestazione del pensiero, diritto sancito nell’art. 21 della Costituzione e considerato indeclinabile, non affievolibile , non disponibile, quasi non bilanciabile?
La libertà di espressione è un diritto che, come è noto ai giuristi, è tenuto in grande di considerazione anche dalla Corte di giustizia europea, notoriamente molto attenta alle ragioni della libera circolazione delle merci e dei servizi: in un celeberrimo caso, la CGE lo considera prevalente sulle libertà economiche (Schmidberger v. Repubblica d’ Austria).
Se ci fermasse a tale schematica presentazione dei fatti – forse utile per vulgate giornalistiche o per proseguire, adattando un famoso detto, “la lotta politica” con l’arma del diritto – la risposta non potrebbe che essere di grave reprimenda nei confronti del consiglio di amministrazione; organo, in mano ad un rettore che osa avvalersi, spregiudicatamente, persino dell’azione disciplinare per scopi altri rispetto alla sua finalità: scopi di mero potere (repressione politica del dissenso) e non di gestione corretta dei rapporti di lavoro in situazioni patologiche che giustificano l’avvio dell’azione disciplinare.
Ma le cose non stanno evidentemente così: tale presentazione dei fatti risente di forzature contingenti (e a queste dedicherò poche battute). Le cose non stanno come si pretende di farle apparire soprattutto perché il problema è giuridicamente mal posto; la specifica expertise di giurista mi porta subito ad affermare – darò adeguatamente conto di questa affermazione – che l’art 21 della Costituzione, in questo caso, non c’entra nulla ed è solo strumentalmente richiamato.
Anzitutto, una valutazione preliminare. Che il rettore sia titolare monopolista dell’azione disciplinare (il suo avvio) e possa irrogare direttamente le sanzioni nei casi di minore gravità (nei casi più gravi se ne occupa un collegio di disciplina composto da docenti), è soluzione voluta dalla legge Gelmini; prima, la competenza era riservata al CUN, un organo esterno ai singoli atenei, di rilevanza nazionale.
Si può dissentire da tale scelta: il rettore è organo elettivo e potrebbe essere tentato di usare il potere disciplinare per vendette postume su chi non lo ha eletto; nel nostro caso, a rigore, oggetto delle contumelie giornalistiche di Piero Graglia sul Fatto quotidiano, non dovrebbe essere l’attuale rettore, che è uscente, ma chi godrebbe del regalo che egli avrebbe graziosamente predisposto: vale a dire il rettore subentrante.
Aggiungono i critici alla legge Gelmini: comunque, affidare a colleghi il potere disciplinare nei confronti di altri colleghi non darebbe di per sé garanzie di imparzialità.
Se si dovesse accettare questo ordine di ragionamento, che ha certamente una sua ragion d’essere, si dovrebbe far pressione sul prossimo Parlamento per cambiare la legge.
Personalmente, ritengo che il meccanismo divisato dalla Gelmini sia più in linea con quel che accade in tutte le amministrazioni pubbliche italiane, in cui la terzietà del procedimento non è connessa alla composizione dell’organo, ma alle garanzie procedurali che insistono sullo stesso. Si potrebbe obiettare che in altri enti dotati di autonomia (gli EE.LL., per esempio) il principio di separazione tra indirizzo e gestione non consente ai sindaci di essere, in alcun modo, coinvolti nel procedimento disciplinare; ma è facile obiettare che il rettore dell’università, è organo bicefalo, sia di indirizzo sia di gestione.
In ogni modo, di tutto questo si può discutere e se si tornasse indietro, al vecchio sistema (invero poco efficace), non mi straccerei di certo le vesti.
Quel che certamente non è lecito rivendicare è una sorta di privilegio, di immunità del ceto accademico rispetto all’esercizio del potere disciplinare, in sé e per sé considerato. Anche i rettori sono soggetti al potere disciplinare ministeriale; guai se non fosse così.
Non lo giustificherebbe né lo status pubblicistico, né certamente il principio di autonomia della ricerca e della didattica. Non lontani avvenimenti accaduti nel nostro ateneo ci dicono, invece, che il ceto accademico, attraverso i suoi organi di amministrazione, si autotutela anche per la sua immagine pubblica, se i meccanismi di sanzionamento ordinamentali, soprattutto nei casi più eclatanti (le molestie sessuali), funzionano con efficacia e prontezza; nelle università americane basta davvero molto meno di quel che è avvenuto a Catania per essere licenziati in tronco: per riferimenti letterari rinvio al best seller “Le correzioni” di Jonathan Franzen.
Sono addirittura propenso a ricondurre alla patologia dello svolgimento del rapporto di lavoro del docente universitario, pertanto sanzionabile (scarsa diligenza e scarso rendimento), anche la vicenda della non operatività scientifica; altro che premi di incoraggiamento per i non operativi, come ho sentito sostenere, nel corso di una seduta del Senato accademico, da due direttori di dipartimento, che dovrebbero essere, invece, i garanti dell’eccellenza e della produttività didattica e scientifica dei docenti!
Detto questo, torniamo al punto da dove siamo partiti: alle “famigerate” linee guida.
E’ stato chiarito molto bene, anche se con argomenti diversi, da due candidati alla carica di rettore che le linee guida, in quanto tali, non costituiscono una fattispecie disciplinare; se il Cda avesse introdotto una fattispecie disciplinare del tipo “chi commenta o critica un procedimento disciplinare commette a sua volta illecito disciplinare” (e le guidelines sono invero molto più lasche e generiche e in ogni caso hanno valore di moral suasion) avrebbe violato la riserva di legge che insiste sulla materia, con riguardo ai docenti universitari.
Il problema è, dunque, non di illegittimità ma di opportunità politica, come, da un’angolatura diversa, con argomenti ragionevolmente critici, argomenta un terzo candidato rettore.
Sull’opportunità di tali linee guida si possono legittimamente esprimere pareri diversi: c’è chi sostiene che sia del tutto normale che nel corso di un procedimento disciplinare nei confronti di un docente – ma a questo punto perché no anche nei confronti di un funzionario o di un impiegato – si possano convocare assemblee, comizi e indire anche proteste di piazza (strumenti fluidi di democrazia diretta) per condizionarne l’esito; ma, addirittura, si ritiene anche legittimo convocare un organo d’ateneo con specifico punto all’odg (il consiglio di facoltà, prima; il consiglio di dipartimento, oggi) per fare in modo che si assuma una delibera a favore o contro l’amministrazione procedente; il tutto, per cercare di condizionare il giudizio finale del collegio disciplinare.
C’è, invece, chi sostiene (per esempio il Cda) che questo sia illegittimo e sanzionabile se i comportamenti diano luogo ad autonome e specifiche fattispecie di infrazione disciplinare: per esempio l’insubordinazione o altre violazioni tipizzate; e c’è chi sostiene che l’agitazione politica contro i procedimenti disciplinari sia, invece, soltanto inopportuna, perché significa riproporre la stessa logica politica di chi, considerandosi un perseguitato politico, rifiuta l’esercizio stesso dell’azione penale, contesta la legittimità del processo e la legittimazione della magistratura inquirente o giudicante, portatrice di ideologia antiliberale.
Ripeto: rispetto a queste diverse opzioni di opportunità o di legittimità, ci si può schierare a favore o contro. Io personalmente ritengo che portare il procedimento disciplinare “in piazza” sia inopportuno, non ultimo per ragioni di privacy, non solo dell’incolpato ma di tutti gli attori della vicenda.
La trasparenza e la pubblicità dell’attività amministrativa – pure del procedimento disciplinare nella p.a. – in Italia e in Europa (art. 41 della Carta di Nizza) sono garantite da principi e da norme speciali e ad hoc: il principio di buona amministrazione, del giusto procedimento, che trovano pratica applicazione mediante la legge sulla trasparenza e sul diritto di accesso agli atti amministrativi (l. 241/ 1990 e successive modifiche). Sono tutti principi, con adeguato corredo di regole, che agglutinano e rendono effettive le garanzie e le libertà personali, tra cui anche quella di espressione.
Questa ultima affermazione mi consente di chiarire la mia affermazione iniziale: nel caso in oggetto, il diritto costituzionale di manifestazione del pensiero non è in gioco; è inutilmente, e strumentalmente, richiamato.
La Costituzione è una legge non come le altre, è la legge fondamentale della nostra Repubblica; i richiami ad essa vanno fatti con discrezione e con competenza; soprattutto, la Costituzione non va piegata a usi indebiti, non va strumentalizzata per fare lotta politica, non va usata come una clava.
Quando si fa riferimento ai procedimenti disciplinari dei dipendenti pubblici – ma anche dei dipendenti privati – è bene tenere in mente che si tratta di un complesso di regole e di principi che appartengono a un “ordinamento sezionale”: quello della p.a., in cui si inserisce il rapporto di lavoro dei pubblici impiegati (dell’impresa, nel caso dei dipendenti privati); nello specifico del caso in oggetto, il rapporto di lavoro dei docenti universitari.
Anche la magistratura costituisce un ordinamento sezionale, addirittura a rilevanza costituzionale; di più, un potere autonomo, come ricordato pure dalla recentissima sentenza della Corte cost., la n. 223 del 2012; nessuno, men che mai il giudice Ingroia, si sognerebbe di invocare la libertà di manifestazione del pensiero per contestare liberamente, nella pubblica piazza o attraverso organi di stampa, un procedimento disciplinare intentato dal CSM per condizionarne l’esito; per la semplice ragione che il giudice Ingroia è ampiamente garantito, nei confronti di eventuali ingiustificate sanzioni che gli si volessero irrogare, dalle regole speciali di quell’ordinamento sezionale che rendono effettiva, senza bisogno di richiamarla, anche la sua libertà di criticare, in modi e procedure ad hoc, l’iniziativa disciplinare, e che comunque gli consentono di difendersi. E si potrebbero fare moltissimi altri esempi similari.
Nelle ipotesi di procedimenti disciplinari non si pone, dunque, un problema di tutelare la libertà di manifestazione del pensiero perché gli ordinamenti sezionali predispongono regole e principi speciali che l’agglutinano. Si tratta di normative di dettaglio, per altro, – e non potrebbe essere altrimenti – “costituzionalmente orientate”, ispirate dai principi generali della costituzione tra cui anche l’art. 21.
Con questo non si vuol neppure affermare – come pure si potrebbe – che la libertà di manifestazione del pensiero, nei procedimenti disciplinari, venga compressa in ragione del bilanciamento con interessi altri, anch’essi costituzionalmente rilevanti; che si operi, per esempio, un bilanciamento con i valori e con gli interessi tutelati da una norma, pur presente nella nostra Costituzione, quale l’art. 54 comma 2, che impone ai pubblici funzionari (anche docenti universitari) un dovere di disciplina e di fedeltà (norma, in genere, sin troppo obliterata) .
Addirittura, se si ragionasse in termini di bilanciamento, qualcuno potrebbe pure argomentare che nelle ipotesi di procedimenti disciplinari nei confronti di funzionari pubblici, il dovere di fedeltà e di obbedienza sancito dalla Costituzione finisca per prevalere sul diritto di libera manifestazione del pensiero.
Ma in effetti, non c’è alcun bisogno di ricorrere a un simile, e paradossale, ragionamento proprio per quello che dicevo prima: nel caso dei procedimenti disciplinari, regolati negli ordinamenti sezionali, non si pone un problema di garanzia della libertà di manifestazione del pensiero proprio perché vigono regole speciali di tutela. Si tratta di regole e di principi ampiamente surrogatori e assorbenti, quanto a garanzie, della tutela apprestata dall’art. 21 Cost.: il giusto procedimento, il principio del contradditorio, il diritto di difesa, la trasparenza degli atti amministrativi, il controllo giudiziale ex post sulla regolarità del procedimento intrapreso e sul suo esito e, con riguardo al procedimento disciplinare in sé considerato, la regola della pubblicità del codice disciplinare, della terzietà e imparzialità del collegio, della proporzionalità tra infrazione e sanzione, ecc.
A coloro che con troppa corrività impugnano, a ogni piè sospinto, il vessillo della Costituzione – dei suoi valori, dei suoi principi e delle sue regole, traditi e calpestati – andrebbe suggerito di declamarla di meno e di studiarla meglio. Alla fine, ne apprezzerebbero certamente di più il gusto e la raffinatezza dei suoi disposti e la solida, elegante e superba architettura che la contraddistingue.