Da Molecole on line.
Per l’Università del talento democratico
In Italia, il “dibattito pubblico” solo molto raramente puo’ essere definito tale. E non solo per via dell’apocalittico scadimento di cio’ di cui si “discute” oggi su giornali, televisioni ed aule parlamentari. In Italia ci si parla addosso senza ascoltare l’altro, si cambia opinione in modo opportunistico, si parla al cellulare o si legge il giornale durante le riunioni. Oppure, si lasciano incontri pubblici subito dopo essere intervenuti “per via di un altro appuntamento assolutamente inderogabile” (dal quale, con ogni probabilita’, si andra’ via subito dopo aver parlato, sempre “per via di un altro appuntamento assolutamente inderogabile”). La debolezza di alcuni dei piu’ fondamentali costumi democratici nel nostro paese e’ concretamente osservabile ogni giorno, nel consumarsi dei milioni di micro-occasioni di confronto di cui e’ inevitabilmente intessuto il funzionamento di una societa’ avanzata che si vuole democratica. In Italia, quella che potremmo definire la “parola pubblica” e’ svalutata ed umiliata. Spesso fondata su poco o nulla, e non – per esempio – sulla frequentazione dei prodotti della ricerca. Oppure, e’ confezionata con cinismo, o guardata con cinismo se viceversa e’ il frutto di un’attitudine sincera. A risultarne e’ una societa’ nella quale a regnare incontrastato e’ uno scetticismo di massa nei confronti dell’idea secondo la quale l’attitudine ad un confronto attento, sincero ed informato fra i cittadini – ad ogni livello: dalla riunione di condominio fino a quella del consiglio dei ministri – sia un bene democratico prezioso forse quanto la divisione fra i poteri. Ma queste virtu’, gli italiani, dove dovrebbero apprenderle?
Se si parla solo di ingegnerie
Seppure ci siano diverse ragioni per credere che li le cose vadano leggermente meglio, l’universita’ non rappresenta comunque un’eccezione in questo quadro disperante. Proprio a partire della didattica, l’aspetto (trascurabile!) della vita universitaria che necessiterebbe forse le riforme piu’ profonde. Di cui, ovviamente, non parla nessuno. Immaginatevi il Ministro Gelmini o uno qualsiasi dei corifei del perenne coro neo-liberista costretti a parlare di come si insegna, di come si apprende e della qualita’ delle relazioni che si stabiliscono all’interno dei nostri atenei. (Stesso discorso vale per molti dei suoi oppositori, che sappiamo bene come “insegnano”). A destra come a sinistra, fra gli statalisti come fra i privatizzatori, ci siamo abituati ad un dibattito sulle istituzioni educative e della ricerca che e’ fortemente ingegnerizzato e tecnicizzato. Viste soprattutto come grandi complessi burocratici che hanno bisogno di essere ri-orientati verso la finalita’ della crescita economica, scuola ed universita’ sembrano aver smarrito – nelle rappresentazioni che se ne danno – il cuore stesso del loro ruolo nella societa’. Accade cosi’ che l’atto dell’insegnamento e dell’apprendimento risultino eccezionalmente periferici, se non del tutto assenti, nelle discussioni che le riguardano. In Italia, i peculiari e gravi problemi nel funzionamento e nella trasparenza – altro segno della debolezza delle virtu’ democratiche – di meccanismi fondamentali della vita universitaria contribuiscono a questo strabismo. Ma questo non basta a giustificarlo del tutto. E, soprattutto, non e’ per nulla detto che parlare solo di ingegnerie aiuti a risolvere i problemi che questi stessi mutamenti di ingegneria vorrebbero in ultima analisi affrontare.
La lezione di Marta
Per fortuna, ci viene in aiuto la filosofa americana Martha Nussbaum di cui, in un numero recente della rivistaInternazionale1, e’ possibile leggere un ragionamento illuminante sul ruolo dell’universita’ in una democrazia e sulle implicazioni di questo sul modello didattico che vi si pratica. Martha Nussbaum lamenta lo schiacciamento economicista delle politiche universitarie in tutto il mondo, visibile prima di tutto nella forte pressione ad eliminare o ridurre il peso di saperi umanistici che, a suo dire, sono indispensabili alla riproduzione della democrazia ed in ultima analisi allo stesso sviluppo economico. La parte piu’ interessante del ragionamento e’ tuttavia quella che l’autrice dedica alla pratica sociale del metodo socratico. “La storia ci mostra che l’insegnamento dei valori socratici produce cittadini critici, curiosi e in grado di resistere all’autorita’ ed alle pressioni sociali (…).L’ideale – continua Nussbaum – sarebbe che ispirasse il funzionamento del maggior numero possibile di istituzioni sociali e politiche”. E’ nelle scuole e nelle universita’ che il suo utilizzo si rivela pero’ particolarmente prezioso. Una didattica ispirata al metodo socratico “richiede molti sforzi da parte degli insegnanti perche’ prevede frequenti scambi con gli studenti, ma spesso da’ risultato commisurati all’investimento”. Purtroppo, lamenta la filosofa americana, il metodo socratico e’ una delle vittime eccellenti del generalizzarsi di una lettura miope e minimalista del ruolo dell’universita’ nel perseguimento della crescita economica. Perfino in America, dove e’ tradizionalmente molto forte e radicato. E da noi? “Nei paesi asiatici ed europei – conclude Nussbaum – i docenti tengono spesso lezioni frontali che richiedono una partecipazione minima o pari a zero da parte degli studenti e non danno feedback.” Vi ricorda qualcosa?
Facce piene di stupore
Infatti, lo stupore che compare sui volti degli studenti quando dall’altro lato della cattedra si manifesta dell’interesse per la loro esistenza – in quanto probabilmente contenente informazioni rilevanti ai fini della didattica – o quando (addirittura!) gli si richiede di essere attivamente partecipi alla costruzione ed allo svolgimento di un corso universitario e’ indescrivibile. In molti atenei italiani, prassi tutto sommato banali e consolidate quali la presentazione e discussione collettiva di lavori di approfondimento da parte degli studenti (ovviamente, modalita’ che si possono impiegare solo nel quadro di corsi non sovra-affolati) destano ancora sconcerto e spaesamento, oppure un’ammirazione ed una fama del tutto eccessive. Una didattica ispirata al metodo socratico rischia di essere un’eccezione perfino in molti corsi di dottorato, il cui orientamento seminariale dovrebbe viceversa essere scontato (altrimenti che dottorato e’?). Allo stesso tempo, il miracolo – in termini di sapere costruito, di qualita’ delle relazioni che si stabiliscono, di responsabilizzazione degli studenti (e dei docenti) – che si consuma ogni qual volta l’attivita’ didattica cessa di essere quella routine pigra, attempata e gravemente deresponsabilizzante che ancora prevale, basta largamente a risarcirci di tutte le difficolta’ che e’ destinata ad incontrare. Un buon corso universitario in cui chi partecipa lo fa pienamente e responsabilmente costituisce una vera e propria boccata d’aria nell’Italia della mediocrita’ e dell’ignavia democratica. Ed e’ anche per questo che occorrerebbe forse tornare a discutere dell modo in cui si insegna e si apprende nelle nostre scuole ed universita’: perche’ farlo equivale a discutere di come vogliamo funzioni la nostra democrazia.
L’universita’ del talento democratico
Se ha ragione Martha Nussbaum, l’universita’ pubblica dovrebbe premiare prima di tutto il talento democratico. Una forma di merito che con difficolta’ trova posto nelle classifiche internazionali e nella vulgata individualistico-competitiva che ne fa oggi una bandiera. Il talento democratico e’ impegno per una didattica che permetta ad ogni studente di esprimere il proprio potenziale cognitivo e creativo, nell’ambito di corsi che riproducano le dinamiche proprie a quella che crediamo debba essere una democrazia ricca ed adulta. Il talento democratico e’ poi una visione del lavoro di ricerca e di insegnamento che lo orienta al perseguimento concreto ed operoso del bene comune, per come e’ definito dalla nostra Costituzione. Il talento democratico e’ infine impegno per la mobilita’ e l’eguaglianza sociale, non solo al livello macro delle politiche universitarie ma anche a quello microdella didattica e del governo ordinario degli atenei. Queste sono tutte qualita’ che una lettura superficiale del cosiddetto merito tende a sottovalutare.Il talento democratico e’ quindi cio’ che dovrebbe essere richiesto a chiunque lavori nell’universita’ pubblica. Che non e’ un posto qualsiasi pagato con soldi qualsiasi: ma e’ l’universita’ pubblica pagata con soldi pubblici. Se non e’ fondata sul talento democratico, l’universita’ pubblica non ha senso ed a quel punto sarebbe forse meglio privatizzarla. Solo costruendo una nuova generazione di docenti e di ricercatori portatori di talento democratico, saremo in grado di convincere i nostri concittadini che, si, ha davvero senso cedere una parte dei propri guadagni per finanziare l’universita’ pubblica. Fra le difficolta’ di una politica a noi ostile, la nostra generazione lascera’ il segno solo se sara’ capace di rivoluzionare il modo in cui si fa ricerca e si insegna nei nostri atenei. Per dirla con Marta, la vera riforma dell’universita’ sara’ socratica.
Alessandro Coppola, 32 anni, assegnista di ricerca presso il Politecnico di Milano, é fra gli animatori di Molecole.
1 Martha Nussbaum, Il Potere del Sapere, Internazionale, n.870, 29 Ottobre 2010.