Di seguito riportiamo il commento analitico FLC-CGIL al DDL Gelmini licenziato al Senato il 29 Luglio.
Il testo così modificato passerà alla discussione alla Camera tra Settembre ed Ottobre.
DDL Gelmini: commento analitico delle modifiche introdotte al Senato
Pubblichiamo un commento analitico delle modifiche al DDL 1905; modifiche che non mutano gli aspetti più critici e negativi a cominciare dal fatto che i soldi non ci sono anche se il Ministro Gelmini, in Aula, ha ripetuto l’ormai logora promessa di milioni di euro prossimi venturi. Abbiamo già avuto ampiamente modo di valutare la differenza fra gli annunci ed i fatti reali.
Confermiamo quindi la nostra contrarietà ad un provvedimento che pretende di presentarsi come riforma epocale, di esaltare merito e trasparenza, di disegnare uno scenario di prospettiva, e che ha invece caratteristiche del tutto opposte: burocratico, centralistico, autoritario, che chiude ogni prospettiva reale ai giovani, massacra i precari, cancella i ricercatori, pone le premesse per la riduzione del diritto allo studio. Un progetto che disegna un’Università, più piccola, povera, privatizzata, riservata a chi se la potrà permettere.
Auspichiamo che la discussione alla Camera assuma un’impronta adeguata alla rilevanza del tema, e capace di modificare profondamente i nodi critici che il provvedimento contiene. Per quanto ci riguarda, fin dai primi di settembre riprende l’iniziativa, insieme a tutti i soggetti che stanno dimostrando in queste settimane la volontà di battersi per soluzioni eque ed efficaci e per la difesa dell’istituzione Università.
“Norme in materia di organizzazione delle Università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario” (DDL 1905, d’iniziativa del Governo, cosiddetto Gelmini).
Il Governo ha trasmesso il 29 novembre 2009 alla Presidenza del Senato il testo del DDL. Il Senato il 29 luglio ha licenziato una prima stesura del disegno di legge, che a partire da settembre sarà sottoposto all’esame della Camera dei Deputati.
La FLC ha già sviluppato un’analisi di dettaglio del testo sottoposto dal Governo all’iter parlamentare (documento del Forum della docenza universitaria del 12 febbraio 2010 e relazione di Marco Broccati al Convegno “DDL Gelmini sull’Università: quale progetto per l’università italiana?” del 2 marzo alla Sapienza a Roma del 2 marzo alla Sapienza a Roma).
Nonostante le numerose modifiche apportate prima dalla Commissione Istruzione (7a) del Senato e successivamente dall’Aula, sono confermati l’impianto del provvedimento ed il senso negativo delle sue principali criticità. Non svilupperemo pertanto una nuova analisi generale dello stesso e ci limiteremo ad evidenziare le principale modifiche introdotte rispetto al testo originario di iniziativa del Governo.
La governance
E’ previsto qualche potere in più al Senato Accademico, che può esprimere pareri sulla programmazione strategica ed il bilancio e che, soprattutto, può con un’adeguata maggioranza (almeno tre quarti dei suoi componenti) proporre al corpo elettorale una mozione di sfiducia al Rettore (Art. 2, comma 1, lettera e). Vi è un’attenuazione del ruolo del Ministero dell’Economia nella gestione degli Atenei; in particolare non è più previsto che il Presidente del Collegio dei Revisori dell’Università debba essere un Dirigente di tale Ministero (Art. 2, comma 1, lettera o).
Vi è un chiarimento sul ruolo delle strutture di raccordo didattico tra più Dipartimenti, non più necessariamente denominate Scuole o Facoltà (Art. 2, comma 2, lettera c), a vantaggio dei Dipartimenti stessi, che saranno in particolare gli unici titolari della proposta di chiamata dei docenti (Art. 17, comma 1, lettera d), proposta che sarà poi sottoposta dal Rettore alla deliberazione del CdA. Per ciò che riguarda la realtà di Medicina viene confermato il principio della “inscindibilità delle funzioni assistenziali delle funzioni assistenziali dei docenti di materie cliniche da quelle di insegnamento e di ricerca” e conseguentemente è previsto che le strutture di raccordo didattico assumano i propri compiti “secondo le modalità e nei limiti concertati con la regione di ubicazione” e quindi non secondo modalità riconducibili esclusivamente all’autonomia statutaria degli Atenei.
Prescindendo da un necessario approfondimento di quanto previsto per Medicina, le modifiche introdotte sono di per sé positive ma insufficienti a modificare l’impianto del ddl.
In particolare permane un modello di governo degli Atenei marcatamente centralistico, imperniato sul Rettore e sul CdA. La struttura centrale, che delibererà sul reclutamento e governerà le dinamiche di sviluppo delle diverse aree dell’ateneo, risulta priva di efficienti contrappesi in grado di contrastare l’eventuale consolidamento di cordate accademiche dominanti ed autoreferenziali. In particolare il CdA, che prevede una significativa presenza esterna, difficilmente riuscirà a svolgere una reale funzione di raccordo tra Università e forze sociali e produttive e rischierà in alcune realtà di essere un semplice braccio operativo del Rettore oppure in altre realtà di esportare a livello universitario esperienze fallimentari quali quelle ad es. della gestione delle ASL nella sanità. Permane pertanto l’accantonamento dell’idea di un governo dell’autonomia come espressione di una comunità di pari che si autogoverna e i cui atti sono valutati da un soggetto terzo, a tutela degli interessi della società.
Principi ispiratori e norme in materia di qualità ed efficienza del sistema universitario
L’articolo 1, comma 1 stabilisce, modificando il testo originario, che “Le Università sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione” Nello stesso articolo, comma 4, si sancisce che il MIUR deve garantire “una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obbiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascuno ateneo, nel rispetto della coesione territoriale del Paese, nonché con la valutazione dei risultati conseguiti”. E nel comma 5 si prevede la possibilità di accordi di programma con il MIUR,“al fine di favorire la competitività delle università svantaggiate, migliorandone la qualità delle performance, tenuto conto degli indicatori di contesto relativi alle condizioni di sviluppo regionale”. Viene altresì precisato che la valutazione dei risultati avviene tramite l’ANVUR. I nuovi principi ispiratori sono impegnativi, ma rischiano di essere nell’attuale contesto delle politiche governative di drammatici tagli finanziari alle Università e di una strategia coerente ad essa correlata di drastico ridimensionamento delle università pubbliche e della popolazione studentesca (denotata come “razionalizzazione dell’offerta formativa”) ed in presenza delle misure di merito del Titolo II, mere affermazioni di principio di natura propagandistica, con esiti concreti di natura opposta.
In particolare i contenuti del Titolo II confermano l’opzione di una politica per la qualità a costo zero e quindi la sottrazione ad un FFO già drammaticamente insufficiente a coprire i costi ordinari insopprimibili (- 1253 Milioni nel 2011) di ulteriori risorse per sostenere gli incentivi alla qualità, anche se occorre registrare, rispetto al testo originario, la riduzione di alcuni prelievi previsti a carico del FFO ed in particolare l’eliminazione del prelievo per sostenere il fondo di rotazione definito distinto ed aggiuntivo rispetto al FFO (art. 5, comma 4, lettera l) e di quelli previsti per finanziare i concorsi nazionali per assegni di ricerca e per posti di ricercatore a tempo determinato, concorsi cancellati dalla Commissione Istruzione del Senato. Permangono però i prelievi dall’attuale FFO per gli incentivi legati agli esiti della valutazione (art. 5, comma 3, lettera d), all’introduzione del costo standard unitario di formazione (art. 5, comma 4, lettera f) per il quale viene precisato da un emendamento approvato in Aula che gli indici di riferimento debbano essere commisurati “ai differenti contesti economici, territoriali , e infrastrutturali in cui opera l’università” , alla valutazione ex post delle scelte di reclutamento degli Atenei (art. 5, comma 1, lettera c),(prelievo ultimo portato in aula dal 3% al 10%, sulla base di quanto previsto dall’art. 5, comma 5) e agli incentivi della mobilità interuniversitaria (Art. 7, comma 3) e di quella connessa al trasferimento di personale in attuazione di procedimenti di fusione o federazione di atenei (art. 3, comma 5). Per ciò che riguarda gli incentivi legati alla valutazione, è previsto che l’attuale 7% del FFO (di cui all’art. 2 del DL 180/2008) sia incrementato ciascun anno con decreto ministeriale in misura compresa tra lo 0,5% ed il 2% (Art. 13, comma 1, lettera b).
Abbiamo in passato espresso il nostro favore a misure che tendessero a promuovere la qualità con incentivi commisurati agli esiti della valutazione. Tali incentivi devono però essere realizzati con risorse aggiuntive all’attuale FFO, già globalmente drammaticamente inferiore agli standard internazionali. Altrimenti si produrrà inevitabilmente una differenziazione drammatica tra gli Atenei, alcuni dei quali saranno costretti a chiudere mentre altri saranno messi nell’impossibilità pratica di garantire al tempo stesso funzioni di formazione e di ricerca. Prevedibilmente, come già si è verificato con il riparto dell’aliquota del 7% del FFO, saranno penalizzate maggiormente le Università meridionali, nonostante le correzioni previste introdotte dai diversi fattori di contesto. E’ da evidenziare comunque che anche le Università, potenzialmente beneficiarie degli incentivi, si troveranno ad operare molto al di sotto degli standard internazionali. Conseguentemente la politica per l’eccellenza sbandierata dal Governo da una parte non metterà in grado nessuna università italiana a competere in un ambito internazionale, dall’altra determinerà un abbassamento drammatico delle prestazioni medie del sistema, oggi accettabili se confrontate con quelle di altri paesi, e accentuerà gli squilibri territoriali.
E’ da segnalare, a tale proposito, anche l’emendamento sostenuto dalla Lega, approvato dalla Commissione Istruzione e confermato dall’Aula sugli interventi perequativi per le università statali “per accelerare il processo di riequilibrio” che prevedibilmente penalizzerà le Università meridionali, e che non è accompagnato da misure concrete che prevedano l’introduzione di correttivi legati ad indicatori di contesto (art. 11).
Per ciò che riguarda il fondo per il merito (Art. 4) è stato eliminato il riferimento alla società CONSAP per la gestione delle prove nazionali di selezione degli allievi. La gestione di tali prove è affidata al MIUR, di concerto con il Ministero dell’Economia.
Per ciò che riguarda gli interventi per il diritto allo studio, è sicuramente in linea di principio positivo il fatto che sia stato posto il problema della copertura finanziaria dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) (art. 5, comma 2, secondo periodo). Si tratta però solamente di un’affermazione di principio perché l’individuazione delle risorse è rinviato ad un altro provvedimento. Nell’immediato la manovra finanziaria ha previsto un drammatico taglio al Fondo Nazionale integrativo per le borse di studio. È da evidenziare infine che la nozione di LEP avrebbe dovuto coerentemente comportare il superamento dell’idea di un “Fondo integrativo” per la erogazione delle borse di studio e prevedere in alternativa un Fondo Nazionale per il Diritto allo studio universitario a copertura dei corrispondenti LEP.
Stato giuridico dei professori e ricercatori di ruolo (articoli da 6 a 10)
La materia non è più oggetto di delega legislativa e le norme relative sono direttamente individuate nel provvedimento. In particolare per ciò che riguarda i diritti e i doveri, le modifiche più significative rispetto al testo originario sono:
- L’impegno delle 1500 ore annue per i professori a tempo pieno (e 750 per quelli a tempo definito) è esclusivamente un vincolo per la quantificazione figurativa delle attività svolte ai fini della rendicontazione dei progetti di ricerca. (Art. 6, comma 1)
- Il tetto delle 350 ore annue per i compiti didattici dei ricercatori a tempo pieno (e 200 per quelli a tempo definito) individua , come nell’attuale normativa, un impegno massimo (Art. 6, comma 3); è stata abolita quindi la norma che prevedeva un tetto minimo di 350 ore (e 250 ora per le figure a tempo definito) sia per i ricercatori che per i professori di ruolo
- La previsione di una mobilità interregionale da favorire (ovviamente senza oneri per la finanza pubblica) per i professori universitari “che hanno prestato servizio presso corsi di laurea o sedi soppresse a seguito di procedure di razionalizzazione dell’offerta formativa” (art. 7, comma 5); prendono così per la prima volta corpo alcune conseguenze del disegno di ridimensionamento del sistema universitario
- La possibilità per i professori ed i ricercatori a tempo pieno di svolgere attività di consulenza, nonché compiti istituzionali di natura non subordinata presso enti pubblici e privati (Art. 6, comma 8), ferma restante l’incompatibilità con l’esercizio delle attività libero professionali.
- La possibilità per i professori e ricercatori a tempo pieno di svolgere attività di didattica e di ricerca presso altri atenei fino ad un massimo di 5 anni (art. 6, comma 9) , e per quelli a tempo definito di svolgere le stesse attività presso università ed enti di ricerca esteri (art. 6, comma 10); a tale proposito non sembra ragionevole e coerente con l’obbiettivo dell’internazionalizzazione l’esclusione delle figure a tempo pieno dalla stessa possibilità.
Per ciò che riguarda la retribuzione dei docenti non è in linea di principio accettabile il rinvio della loro definizione ad un regolamento ministeriale (Art. 8, commi 1, 3 e 4). Una tale scelta priva i docenti universitari sia della tutela legislativa che di quella contrattuale. La vicenda degli ultimi tagli sulle retribuzioni dei docenti voluti dal Ministro Tremonti, costituisce un preoccupante segnale di allarme sulle possibili conseguenze di meccanismi affidati alla discrezionalità ministeriale.
Allo stesso modo la considerazione della discrezionalità degli Atenei in materia di erogazione o meno degli scatti triennali, subordinata alla valutazione delle attività svolte (art. 6, comma 12) , come pure quella delle altre conseguenze di una eventuale valutazione negativa (art. 6, comma 6), evidenziano anche esse l’inaccettabilità di un modello di governance accentrato nelle mani del Rettore e del CdA che non preveda la presenza di istanze di garanzia a tutela della comunità accademica nella sua interezza, al di là quindi degli inevitabili interessi accademici delle maggioranza che ha espresso il Rettore.
È confermato il passaggio delle competenze in materia disciplinare dal CUN agli Atenei, che può rafforzare ulteriormente nei fatti le prerogative del Rettore, cui tocca l’iniziativa dei procedimenti corrispondenti (Art. 10).
Norme in materia di personale accademico e di reclutamento (Titolo III)
Questa parte del provvedimento ha subito molte modifiche rispetto al testo originario del Governo, sia per effetto del lavoro della Commissione Istruzione che per gli emendamenti approvati in Aula.
E’ stata introdotta l’articolazione dei settori concorsuali in settori scientifico-disciplinari che potranno essere utilizzati nelle procedure concorsuali locali relative rispettivamente alla copertura dei posti di professore di ruolo e di ricercatore a tempo determinato ed all’erogazione di assegni di ricerca (Art. 15, comma 1), mentre i settori concorsuali saranno utilizzati nelle procedure per l’abilitazione scientifica nazionale (art. 16, comma 3, lettere g ed h). È da evidenziare a tale proposito che la previsione di una diversa consistenza dei settori concorsuali nell’immediato (almeno 50 professori di I fascia) ed a regime (almeno 30 professori di I fascia) è coerente con un dimensionamento a regime dell’organico dei professori ridotto del 40% rispetto alla situazione attuale, quanto meno per la prima fascia.
La composizione delle commissioni dei concorsi locali non è più normata ed è rinviata all’autonomia degli Atenei (Art. 17, comma 1). Gli stessi vincoli previsti per le procedure sono meno stringenti. La disciplina delle chiamate è rinviata a ad un regolamento di Ateneo che dovrà comunque rispettare in particolare i principi enunciati dalla Carta Europea dei ricercatori ed essere conforme alle esigenze dell’evidenza pubblica (Art. 17, comma 1, lettera a) Non è più previsto l’obbligo della lezione sia per la copertura dei posti di ricercatore a tempo determinato che per gli altri posti. È però prevista la possibilità per le università di accertare le competenze linguistiche dell’aspirante (art. 17, comma 2, lettera c). La durata delle convenzioni con soggetti esterni per la copertura totale o parziale da parte di questi dei costi del reclutamento dei professori è portato da 10 a 15 anni (art. 17, comma 3).
L’utilizzazione delle risorse finanziarie per il personale è soggetta a 3 vincoli:
- il vincolo sulla consistenza numerica, entro intervalli percentuali definiti dal Ministero, delle diverse fasce della docenza e del personale tecnico amministrativo (Art. 5, comma 4, lettera d, da recepire nel piano triennale)
- il vincolo sulle risorse della programmazione triennale che deve prevedere almeno un quinto dei posti disponibili di professori di ruolo destinati alla chiamata “di coloro che nell’ultimo triennio non hanno prestato servizio, o non sono stati titolari di assegni di ricerca ovvero iscritti a corsi universitari nell’università stessa” (art. 17, comma 4)
- il vincolo derivante dalla nuova configurazione prevista per la figura del ricercatore a tempo determinato.
Sono previste due figure di ricercatori a tempo determinato tra loro sequenziali (art. 21). È prevista una durata complessiva delle due tipologie di contratto di 8 anni. Le due tipologie di contratto prevedono rispettivamente:
- contratti di durata triennale prorogabili una sola volta per due anni, che prevedono la possibilità di un rapporto a tempo pieno o a tempo definito, con un impegno orario annuo rispettivamente di 350 e 200 ore, diverso quindi da quello degli attuali ricercatori a tempo indeterminato, e con una retribuzione eguale a quella di questi ultimi
- un ulteriore contratto triennale non rinnovabile che prevede esclusivamente un rapporto a tempo pieno ed una retribuzione incrementata del 30%; al termine del triennio se il ricercatore ha conseguito l’idoneità scientifica nazionale e la sua attività è valutata positivamente dall’Ateneo egli è inquadrato nel ruolo dei professori associati; è previsto che le Università debbano assicurare nella loro programmazione triennale “la disponibilità delle risorse necessarie in caso di esito positivo della procedura di valutazione” (art. 21, comma 5, penultimo periodo).
La durata della fase transitoria di prima applicazione della nuova normativa è portata a 6 anni (art. 21, comma 6) ed è previsto che in tale fase il 50% delle “risorse equivalenti a quelle necessarie per coprire i posti disponibili di professore di ruolo” può essere utilizzato per procedure di chiamata diretta su posti di prima e seconda fascia riservate rispettivamente a professori associati e a ricercatori a tempo indeterminato in servizio presso l’ateneo che abbiano conseguito la corrispondente abilitazione scientifica nazionale.
A decorrere dal settimo anno “l’università può utilizzare le risorse corrispondenti fino alla metà dei posti disponibili di professore di ruolo” per la chiamata diretta dei nuovi ricercatori a tempo determinato (art. 21, comma 6, ultimo periodo).
Per ciò che riguarda tutte le procedure di chiamata diretta è previsto che la valutazione si debba svolgere “in conformità agli standard qualitativi individuati con apposito regolamento di ateneo nell’ambito dei criteri fissati con decreto del Ministro” (Art. 21, comma 5, terzo periodo). Allo stesso modo è previsto che nei concorsi per posti di ricercatore a tempo determinato la valutazione delle pubblicazioni scientifiche e del curriculum dei candidati debba essere effettuata attribuendo un punteggio motivato “secondo parametri e criteri definiti con decreto del Ministro” (Art. 21, comma 2, lettera c).
Sono da segnalare infine:
- Le limitazioni introdotte alla partecipazione ai gruppi ed ai progetti di ricerca delle università (art. 17, comma 5), che sembrano ispirate dalla volontà di limitare le forme di rapporti precari che scaturiscono dalla gestione delle attività di ricerca; tale volontà è però contraddetta dalla previsione, già presente nella proposta originaria, della cumulabilità degli assegni di ricerca “con borse di studio a qualunque titolo conferite” (art. 19, comma 3)
- L’adozione in via sperimentale del principio della tecnica della valutazione tra pari, svolta da comitati composti per almeno un terzo da professionisti operanti all’estero, nella selezione di progetti di ricerca (art. 18) (emendamento proposto da Ignazio Marino)
- L’assenza di limitazioni significative per il ricorso a contratti di insegnamento, tranne che per quelli a titolo gratuito da affidare solo a soggetti in possesso di un loro reddito (art. 20, comma 1)
- L’eliminazione per i professori ed i ricercatori della possibilità di permanere in servizio per un biennio oltre i limiti di età previsti per il collocamento a riposo (art. 22)
- La copertura degli incrementi retributivi per i ricercatori non confermati (di cui all’art. 5, comma 3, lettera f e quantificati complessivamente in 11 milioni di euro) a carico del cofinanzimento nazionale degli assegni di ricerca, cofinanziamento ridotto in tal modo di circa il 20% (art. 25, comma 11 primo periodo)
- Nello stesso tempo i maggiori costi per gli assegni derivanti dal loro adeguamento alle normative esistenti in materia previdenziale, di astensione obbligatoria per maternità e di congedo per malattia (di cui all’art. 19, comma 5), valutati in 20 milioni di euro, saranno a carico dei rimborsi elettorali ai partiti (art. 25, comma 11, secondo periodo).
Per ciò che riguarda l’età di collocamento in riposo sono da segnalare anche le proposte, non accolte dal Senato, del PD e dello stesso Ministro dell’abbassamento a 65 anni dell’età per il collocamento a riposo ed il parere negativo del CUN su tali proposte, formulato tenendo conto dei dati concreti delle previsioni di pensionamento entro il 2018, dei tempi necessari e degli attuali vincoli per il reclutamento, delle conseguenze di un accelerazione dei pensionamenti sulla sostenibilità dell’offerta formativa.
Le modifiche introdotte non modificano le caratteristiche fondamentali del modello di assetto della docenza previsto nel testo originario del governo ed in particolare la messa ad esaurimento dei ricercatori e conseguentemente la sostituzione di una figura a tempo indeterminato con una a tempo determinato e l’ulteriore innalzamento, rispetto alla situazione attuale, dell’età di accesso in una posizione stabile. Occorre evidenziare:
- la coesistenza schizofrenica tra concessioni formali alle legittime aspettative di accesso all’università di giovani precari e di progressione di carriera di ricercatori ed associati e le attuali persistenti limitazioni al turnover;
- il significato di beffa amara ai danni di tali soggetti la previsione di meccanismi destinati a restare inapplicati per l’assenza di risorse finanziarie a ciò destinate;
- il conseguente confinamento in particolare degli attuali ricercatori a tempo indeterminato in una sorta di limbo;
- la distanza lunare tra il legislatore e le misure anche eccessivamente minuziose da esso messe a punto ed il contesto in cui la riforma calerà, contesto caratterizzato dalla drammatica crisi finanziaria in cui la lucida strategia del governo sta sospingendo i nostri atenei; ci si domanda ad es. quale potrà essere il piano di programmazione triennale di un Ateneo che a partire del prossimo agosto potrebbe non essere in grado di pagare gli stipendi al proprio personale e che qualche mese dopo potrebbe essere messo nella condizione di cessare le proprie attività;
- la macchinosità del percorso di programmazione triennale degli atenei, che renderà difficilmente compatibili tra loro i diversi vincoli (ad es. accessi dall’esterno e dall’interno, consistenza numerica delle diverse fasce, procedure ordinarie di chiamata e chiamate dirette)
- per ciò che riguarda in particolare l’attivazione di un vero percorso di “tenure” al termine del primo quinquennio di contratto, sicuramente essa costituisce un passo avanti rispetto alla stesura originaria del provvedimento, ma non si può ignorare il fatto che i primi 5 anni di contratto restano totalmente scoperti e costituiscono congiuntamente all’assegno di ricerca un rapporto puramente precario eccessivamente prolungato nel tempo.
- l’assurdità di vincoli centralistici sulla consistenza numerica delle diverse fasce della docenza e del personale tecnico amministrativo con penalizzazione finanziaria nel caso di mancato rispetto dei limiti.
- l’assurdità di meccanismi di mobilità forzata.