Assemblea di Roma – Intervista a Luciano Gallino (Da Il Manifesto)

Intervista a Luciano Gallino, da Il Manifesto (20 novembre 2009 – vai al sito CGIL, che riporta l’intervista)

"Per l’Università ci vuole Welfare" – di Roberto Ciccarelli
L’università non è riformabile senza tutele sociali per il lavoro
precario e un welfare basato sulla continuità di reddito dei singoli. È
questa la chiave non corporativa, ma politica, scelta dalla rete dei
ricercatori precari romani e dalla Federazione dei lavoratori della
conoscenza (Flc) della Cgil per convocare l’assemblea nazionale
dell’Onda di oggi pomeriggio alla Sapienza contro il disegno di legge
Gelmini sull’università. Una novità che non è sfuggita a Luciano
Gallino, sociologo del lavoro tra i più ascoltati in Italia: «Mi pare
che sia il segnale di un’accresciuta percezione della situazione che si
va determinando nel mondo del lavoro. Moltissimi contratti precari in
scadenza non saranno rinnovati, ci sarà un aumento notevole della
disoccupazione di lunga durata. Dinanzi a questo, si sta facendo avanti
l’idea che occorre un’innovazione radicale dei cosiddetti
ammortizzatori sociali, che io chiamerei in maniera più precisa di
sostegno al reddito».

L’appello sottoscritto dall’Onda e dalla Flc dimostra che questa sensibilità si sta affermando anche nella Cgil?
Mi pare che la Cgil si sia fatta sentire anche più di altre
confederazioni sul tema del lavoro precario, indicando i limiti e i
problemi. Il passo che andrebbe fatto, e forse queste prime
manifestazioni vanno in questa direzione, è che bisognerebbe sfoltire
radicalmente il numero dei contratti precari. Il conto è difficile da
fare, ma dovremmo essere tra 40 e 45. Un certo numero di contratti non
a tempo indeterminato può essere utile al lavoratore quanto
all’impresa. Ma, in generale, questi contratti in deroga dovrebbero
essere quattro o cinque.
Quali sono le difficoltà che ha il sindacato con il lavoro precario?
Il numero dei contratti, come le dicevo. E poi c’è una doppia
complicazione: in molte aziende lavorano aziende esterne e molto lavoro
interno viene affidato all’esterno. In questo contesto è molto
complicato rappresentare gli interessi dei lavoratori giovani, adulti e
anziani in tutti i settori produttivi. Il sindacato è nato oltre 150
anni fa forte di una triplice unità: l’unità di tetto degli operai in
uno stesso luogo, l’unità di padrone e l’unità di condizione di lavoro.
La sua forza era di rappresentare questa unità. Dato che oggi questi
tre pezzi sono andati in frantumi, bisogna cercare di tornare verso
qualche tipo di unità, sebbene quella di un tempo non possa più essere
recuperata.
Quanto al lavoro nell’università e nella ricerca?
Ogni valutazione sul lavoro in questi campi deve partire dal fatto che
in tutto il mondo diminuiscono i fondi pubblici per la ricerca. È il
privato, di norma, a finanziarla. In qualche caso ciò avviene senza
imporre fini alla ricerca. In moltissimi altri casi la ricerca
finanziata serve a uno specifico tornaconto economico. Il che vuol dire
strozzare gran parte della ricerca di base che ha degli orizzonti di
tre, cinque, dieci anni. La ricerca che deve fare profitti ha un
orizzonte di uno o due anni. È questa la linea sulla quale fare
resistenza.
Quali dovrebbero essere i rapporti tra università e impresa?
Non bisogna essere manichei ed escludere ogni rapporto tra questi
soggetti. Nel caso dei politecnici, il rapporto è vitale anche nella
formazione degli studenti. Se un ragazzo spende cinque anni per
diventare ingegnere senza contatti con le industrie, nel momento in cui
va a lavorare scopre di essere in ritardo di cinque anni. Il discorso
però è diverso. Bisogna che l’università ponga dei limiti all’impresa e
sappia contrattare. Purtroppo i politici che se ne occupano ritengono
che impresa è bello, che i soldi non hanno odore, che è lecito fare
ricerca seguendo i dettami delle imprese. Se una volta si parlava di
«complesso militare-industriale», la realtà oggi è diversa. C’è il
«complesso accademico-industriale» creato dall’enorme attrazione che le
multinazionali hanno sui dipartimenti, soprattutto nel mondo
anglosassone.
Non ha l’impressione che negli ultimi 20 anni il tanto evocato rapporto con i privati abbia prodotto in Italia pochi risultati?
Credo che sia un’impressione corretta. C’è una questione a monte: per
fare ricerca bisogna avere obiettivi precisi di ordine generale. La
politica industriale in Italia non esiste più da quarant’anni. La
ricerca, anche quando la si fa, ha un basso contenuto tecnologico o
scientifico. Le domande italiane per i brevetti, spesso interessanti,
hanno un contenuto tecnologico modesto perché non c’è alcun governo,
ministro o ente che sappia dire se aiutare la ricerca in questa o in
un’altra direzione. Se politica industriale significa scegliere dove
investire, allora in Italia non c’è mai stata. Siamo ultimi tra i paesi
Ocse nella somma degli investimenti pubblici nella ricerca con l’1,1%
del Pil. Ci sono eccezioni importanti, non si può negarlo, ma in
generale gli investimenti sono maldiretti e sotto il potenziale che il
paese potrebbe esprimere.
Da quanto ha potuto capire dal ddl Gelmini, esiste l’intenzione di correggere questa tendenza?
È molto difficile capirlo, anche perché si dovrebbe fare un’analisi
approfondita degli effetti applicativi del disegno di legge, quando ci
saranno. Mi sembra che si resti su linee assai generali e si rinnovino
gli inviti a una maggiore collaborazione con l’industria. Questo
potrebbe significare un asservimento della ricerca all’industria, come
anche l’opposto. Non è chiaro, dunque, in quale direzione il governo
voglia andare.
Lei propone il reddito di base come soluzione per un’economia che dopo
la crisi crescerà poco e non produrrà occupazione. Quale ruolo avrebbe
in una situazione di generale dequalificazione della formazione come
quella italiana?
Una delle posizioni etico-politiche del reddito di base è rendere gli
individui maggiormente liberi dinanzi alle scelte lavorative e, si può
presumere, anche alle scelte nel percorso universitario e
post-universitario. Se una persona è a reddito zero, cioè se non ha mai
avuto un lavoro normalmente retribuito o è un giovane in cerca di una
prima occupazione, accetterà qualunque tipo di lavoro. Se, invece,
avesse un reddito di base, il cui scopo è tenere le persone al di sopra
della soglia di povertà, sarebbe più libero di compiere le sue scelte.
Non cercherebbe a tutti i costi uno sbocco lavorativo redditizio. È un
po’ tutto da sperimentare, ma ritengo che questo carattere del reddito
di base, cioè la costruzione di maggiori spazi di libertà fuori
dall’assillo del bilancio quotidiano, potrebbe avere effetti positivi
anche sulla ricerca e sui percorsi universitari in genere.
Come risponde alle obiezioni sul suo finanziamento?
Chi è pregiudizialmente ostile al reddito di base troverà infinite
ragioni per opporsi. Vi sono molti pro e molti contro. Per ragionare in
concreto, il reddito dovrebbe assorbire tutte le spese che vengono
erogate sotto la forma di ammortizzatori sociali e assimilati. Se si
mette insieme il costo della cassa integrazione ordinaria, cassa
straordinaria, cassa integrazione in deroga, liste di mobilità,
prepensionamenti, assistenza ai pensionati sotto la soglia di povertà e
altre forme di assistenza, sono miliardi di euro. In altre parole,
bisogna pensare ad una generale trasformazione delle politiche sociali.

In questa nuova cornice, come dovrebbe funzionare?
I calcoli che si fanno stabiliscono che per stare al di sopra di una
soglia della povertà una famiglia avrebbe bisogno di 1.500 euro o giù
di lì, 5 o 600 euro per due familiari, la metà per uno o due figli. Ci
sarebbe comunque un margine non coperto, però la trasformazione degli
ammortizzatori sociali come – per fare un gioco di parole – base per il
reddito di base potrebbe far fare un grande passo in avanti. Il reddito
di base non è condizionato dal fatto di avere avuto un lavoro. La cosa
paradossale oggi è che per avere un sussidio di disoccupazione bisogna
avere versato almeno 52 settimane di contributi.
L’assemblea dell’Onda affronterà, tra l’altro, il problema dei 50 mila
precari che lavorano nell’università. È presumibile che nessun governo
e nessuna legge di riforma riescano a disporre l’assunzione di tutte
queste persone. Il reddito di base potrebbe tornare utile anche per
questa situazione specifica?
Entriamo
su un terreno un po’ complicato. Queste sono persone che non hanno la
minima certezza sul proprio futuro dentro l’università e fuori. E
tuttavia gli assegnisti, i contrattisti, i ricercatori precari costano,
ricevono un reddito. Il reddito di base implica la riconversione di
questi fondi e dà una serie di garanzie alle persone quando il concorso
non c’è, si fa dopo dieci anni o quando, per qualche motivo
organizzativo, ci si priva di certe figure. Non sarebbe tanto un
trasferimento di costi, anche se costi addizionali ci sarebbero
comunque. Il reddito di base sarebbe un cambiamento di prospettiva
nella vita delle persone.

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