Harvard, davanti a Cambridge e Yale. Come ogni autunno, si rinnova l’appuntamento con la classifica del Times Higher Education sui migliori atenei del mondo e i primi posti non si riservano sorprese: il podio è lo stesso dello scorso anno, con la seconda e la terza che invertono le posizioni.
La vera notizia, almeno per noi italiani, è che per trovare il primo ateneo di tricolore occorre scorrere la graduatoria fino alla posizione 176. Qui si trova, infatti,Bologna che quanto meno può essere soddisfatta del balzo di 18 posizioni compiuto nell’arco di dodici mesi. Più in generale, il quadro che viene fuori boccia il sistema universitario italiano, pur con qualche scusante.
Dominio anglosassone
Tornando ai piani alti della classifica, ai piedi del podio si piazza Yale, davanti all’University College di Londra (in crescita di tre posizioni rispetto allo scorso anno), all’Imperial College della capitale britannica (in crescita di un posto) e a Oxford. La top ten è completata da un quartetto di atenei statunitensi: Chicago, Princeton, Massachussets Institute of Technology e California Institute of Technology. Guardando complessivamente la top 100, emerge un dominio di atenei anglosassoni – sono 54, di cui 36 statunitensi e 18 britanniche – e un’avanzata delle scuole asiatiche che hanno adottato analoghi modelli di insegnamento: così l’University of Tokyo è 22esima, Hong Kong 24esima e la Kyoto University 25esima.
I criteri di scelta premiano il modello anglosassone
Harvard, che ha avuto tra i suoi allievi più illustri presidenti di oggi e di ieri come Barack Obama, George W. Bush, John Kennedy, oltre che 75 premi Nobel, si è vista ribadita la fiducia dei docenti di tutto il mondo. Diversamente da altre graduatorie internazionali che seguono criteri qualitativi – come quelle del Financial Times -, infatti, quella del mensile inglese è basata essenzialmente sul peer-review, termine inglese che si potrebbe tradurre come "revisione da parte dei pari". In sostanza, l’idea alla base è che non vi sia nessuno più affidabile dei colleghi riconosciuti a livello internazionale (poco più di 2mila quelli interpellati) per esprimere un giudizio sulla qualità del lavoro proposto. Un altro criterio utilizzato è il "citation per paper", che passa al setaccio le pubblicazioni dell’ultimo decennio su giornali scientifici, anche qui senza seguire tuttavia criteri esclusivamente quantitativi, ma valorizzando i dati secondo una serie di parametri. Seguono il rapporto tra docenti e allievi e il tasso di internazionalizzazione, dato dalla percentuale del personale accademico e degli studenti provenienti da altri.
Europa penalizzata, ma l’Italia è in forte ritardo
Il risultato è che a primeggiare sono i soliti noti: atenei di primissimo piano per qualità scientifica, livello dell’insegnamento e possibilità di impiego successivo, ma che inevitabilmente beneficiano della loro diffusa conoscenza tra i "giurati". Mentre viene penalizzato il modello classico europeo: la prima università del Vecchio Continente (esclusa la Gran Bretagna) è l’Eth di Zurigo (20esima), mentre l’Ecole Normale Supérieure è 28esima.
Performance non entusiasmanti, ma di gran lunga migliori rispetto a quelle fatte segnare dall’Italia: come detto, la prima è Bologna (178esima), seguita dalla Sapienza di Roma (205esima).
Numerose le reazioni del mondo politico e accademico a questi risultati. Tra gli altri, il ministero dell’Istruzione Mariastella Gelmini vede nella classifica "una conferma di quello che abbiamo sempre sostenuto, cioè che il sistema universitario italiano va riformato con urgenza". Quindi prosegue:
"Siamo agli ultimi posti nelle classifiche mondiali: per questo motivo presenteremo a novembre la riforma dell`Università, con l`obiettivo di promuovere la qualità, premiare il merito, abolire gli sprechi e le rendite di posizione". Il presidente della Crui, Enrico Decleva, ricorda che ormai quello del Times Higher Education Supplement è "un rito annuale. A ogni inizio d’autunno la classifica arriva puntualmente a ricordarci quanto il sistema universitario italiano sia indietro rispetto agli standard di eccellenza mondiali. E ogni anno è peggio". Quindi precisa: "Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sugli indicatori che producono quella particolare classifica: fatti apposta per valorizzare una particolare tipologia di universitá. Quella statunitense e anglosassone, assunta come modello anche dai paesi asiatici che stanno ottenendo i risultati più brillanti".