Compiti per le vacanze – dal Nazionale
Ad 1 anno dalla creazione del CPU le difficoltà che abbiamo denunciato si sono aggravate. Moltiplicazione delle figure precarie, progressiva eliminazione di una generazione qualificata, disinvestimento nella ricerca e privatizzazione strisciante, università sempre più burocratica e gerarchica, scadimento della qualità, riduzione degli studenti iscritti e necessità di una riforma vera di quello che dovrebbe restare un servizio pubblico.
L’unica cosa buona è che in questo periodo abbiamo trovato tra gli studenti, i ricercatori e una piccola parte del mondo docente comprensione e il dialogo con reti che si vanno formando e che speriamo si allarghi in una possibile Coalizione per l’università e la ricerca bene comune.
Di seguito elenchiamo alcuni spunti sui quali riflettere nelle giornate estive, nella speranza che possano aiutare ad elaborare nuove idee e nella convinzione che tutti ci impegneremo a non abbandonare la nave e rafforzare gli strumenti per tenerci in contatto:
1. I bandi per i concorsi da ricercatore a tempo determinato sono difficilmente accessibili e sempre localistici, sia nel senso di configurare una carriera accademica nella quale il primo e determinante passo è il risultato di scelte ed accordi locali, sia nel senso che ogni posto da ricercatore a TD finisce per avere caratteristiche diverse da università ad università (alcune pongono vincoli anagrafici, altre limiti di voti, certificazioni della conoscenza di lingue, etc.).
2. Ci sono tentativi di tornare agli insegnamenti gratuiti per i professori a contratto e in ogni caso, anche qualora il Parlamento resistesse alle pressioni che arrivano da più parti, il decreto in via di emanazione prevede retribuzioni misere, con un minimo fissato a 25 euro lordi. Si tratta di una somma che in molti casi non coprirà neppure le spese, a partire da quelle di trasporto, e viene accettata solo perché si continua perversamente a solleticare l’illusione di mettere una tacca in più sul proprio curriculum in vista di carriere accademiche sempre più improbabili.
3. I criteri stabiliti dall’Anvur per le abilitazioni scientifiche nazionali sono del tutto inadeguati per il settore umanistico, nel quale sono difficilmente applicabili misurazioni bibliometriche. A parte questo, c’è da riflettere su un aspetto più vasto: l’Anvur è nata come agenzia di valutazione della qualità e dell’efficienza degli atenei e degli enti di ricerca. La stessa “riforma” Gelmini è impostata su una filosofia piuttosto chiara: le università godono di una notevole autonomia nella fase di reclutamento (i concorsi locali praticamente non sono disciplinati e di fatto sono quasi delle chiamate dirette), ma sono spinte a comportamenti “virtuosi” dalla consapevolezza che i finanziamenti futuri dipenderanno dall’esito della valutazione da parte dell’Anvur. In base a questa impostazione, qualunque opinione si possa avere sugli specifici criteri proposti, appare contraddittorio che la stessa agenzia prima definisca dei parametri che di fatto condizioneranno fortemente le politiche di reclutamento dei singoli atenei e poi valuti i risultati di queste politiche. In tal modo si crea l’ennesimo conflitto di interessi e si trasformano le future valutazioni ex-post da parte dell’Anvur in auto-valutazioni del proprio operato precedente. In realtà, anche considerando che i membri dell’Anvur sono di nomina politica e che l’agenzia è addirittura fisicamente collocata all’interno di un ministero, esiste il rischio che queste continue attribuzioni di competenze e poteri aggiuntivi rispetto ai fini istituzionali diventino uno strumento per assegnare alla politica un controllo sempre più stretto sul sistema universitario. E’ invece auspicabile che l’Anvur diventi un’agenzia indipendente ed eserciti le proprie funzioni libera da qualsiasi condizionamento di natura politica.
4. Proprio nel momento in cui sarebbe doveroso cercare di arrestare il calo di immatricolazioni e l’emorragia di studenti, vengono avanzate proposte di aumento delle tasse universitarie. Contemporaneamente, il Senato ha avviato un’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale dei titolo di studio. Dai resoconti delle audizioni e dagli interventi sulla stampa, sembrerebbe che la proposta di abolizione del valore legale si sia ora trasformata nella richiesta di avvio di un sistema di accreditamento, in parte già abbozzato nella “riforma” Gelmini. Secondo alcuni questo sistema dovrebbe distinguere fra corsi di laurea accreditati e corsi non accreditati, mentre secondo altri dovrebbero esistere vari livelli di accreditamento che collocherebbero i corsi in una serie A, una serie B, una serie C e così via… Sembra comunque che le idee siano piuttosto confuse: poiché all’atto pratico la questione finisce per riguardare i requisiti di ammissione ai concorsi pubblici e l’accesso alle professioni, o si decide di non richiedere più il possesso di un titolo di studio, e allora non si capisce a cosa servirebbe l’accreditamento, oppure si decide di distinguere fra i livelli di accreditamento, finendo per aggiungere al valore legale dei titoli di studio pure quello dello stesso accreditamento.
5. E’ in via di emanazione il decreto sulla dichiarazione dello stato di dissesto e ilcommissariamento delle università. Ferma restando la condanna delle spese allegre di certi rettori, nel contesto di tagli attuale è evidente per tutti che molti futuri dissesti saranno causati in primo luogo dalle decisioni del governo, il quale potrà poi, attraverso il pronunciamento di revisori dei conti di nomina politica, dichiarare il dissesto e nominare i commissari. Attraverso questi ultimi, la politica potrà infine mettere in vendita il patrimonio delle università, bloccare il rinnovo dei contratti precari e trasferire forzosamente il personale.
6. Le regioni che finanziano la ricerca pretendono anche di orientare le politiche di assunzione. Il proliferare di assegni di ricerca finanziati o cofinanziati da enti regionali o locali ha effetti potenzialmente pericolosi. Il caso delle borse finanziate dalla Regione Calabria e dei loro meccanismi di assegnazione, che hanno generato proteste e ricorsi collettivi da parte di aderenti al CPU, dimostra bene come i finanziamenti regionali rischino di cadere in trappola di meccanismi politici locali. Mentre è senz’altro positiva l’apertura di nuovi canali di finanziamento, occorre prestare attenzione alla trasparenza e ai meccanismi delle procedure di assegnazione e selezione.
7. Gli Statuti sono stati spesso riscritti dagli stessi poteri accademici responsabili dei mali che si dichiara di voler correggere e, tranne poche lodevoli eccezioni, non hanno visto alcuna partecipazione del mondo universitario reale, a partire dai precari che rappresentano una buona quota (almeno il 40 per cento) di chi contribuisce alla didattica e alla ricerca in Italia. Dove si è votato (sebbene in modo autogestito, come a Bologna) gli Statuti sono stati respinti dalla maggioranza del corpo accademico. Appare evidente che, nonostante i proclami trionfali che hanno accompagnato l’approvazione della “riforma”, il mondo accademico è sempre più soggetto al controllo di una sua parte ridotta, spesso composta da coloro che hanno costruito carriere di potere senza offrire alcun contributo positivo alla missione dell’università.
8. La riorganizzazione dei dipartimenti ha seguito unicamente criteri di potere accademico e non è stata associata ad alcuna innovazione sul piano della didattica e della ricerca. E’ stata un’altra operazione meramente orientata al risparmio e alla riduzione di strutture, concepita e condotta senza alcuna idea strategica sul futuro dell’università.
9. Manca un ragionamento sul 3 più 2 che ha fallito i suoi obiettivi, sia quello di aumentare il numero di laureati, sia quello di avvicinare l’università al mondo del lavoro.