Dalla Bocconi a Gomorra (di Fabrizio Illuminati)
Che analisi bizzarra e divertente, per usare degli eufemismi, quella di Andrea Ichino, in difesa della sua proposta (e di altri “autorevoli economisti”) di introdurre un sistema di tasse universitarie per compensare i tagli al finanziamento ordinario che viene erogato dallo Stato attingendo alla fiscalità generale. Analizziamo alcune delle perle principali di questo “compitino” che svela molto dell’autore e delle sue intenzioni (e che trovate sul sito di Scienzainrete: http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/tasse-ununiversita-piu-equa-risposta-sylos-labini ).
Cominciamo dalle ormai ricorrenti osservazioni, di Ichino e di altri, che l’università italiana è autoreferenziale e lontana dai circuiti internazionali di produzione e diffusione della conoscenza. Dunque, l’università italiana è in splendido isolamento, utile a riprodurre solo sé stessa? Andando a vedere nello specifico delle diverse aree disciplinari, sembrerebbe proprio di no, perlomeno nei settori scientifici e tecnico-ingegneristici, dove è costantemente agganciata alle migliori eccellenze internazionali, come dimostrano tutti gli indici quantitativi (a cominciare dagli h-index cumulativi dei nostri ricercatori), che stranamente, guarda un po’, l'”economista” Ichino, che dovrebbe essere sensibile ai numeri e ai dati reali, rifiuta costantemente di prendere in considerazione. Sorprendente, no?!? In realtà l’afffermazione di Ichino sembrerebbe contenere una parte di ragione: c’è effettivamente un sottoinsieme delle Università e dei settori di ricerca italiani che è in sofferenza, rispetto agli standard di valutazione internazionali: si tratta, nella maggior parte dei casi, delle facoltà e degli “studi” economici e giuridici, il cui fiore all’occhiello, si fa per dire, dovrebbe essere rappresentato, secondo Ichino, dalla Bocconi e dai Bocconiani, così agganciati al treno internazionale da aver conferito la laurea honoris causa al ministro argentino dell’economia, Cavallo, pochi giorni prima che la sua disastrosa cura liberista “da cavallo” portasse al crollo del governo Menem e dell’economia argentina.
Veniamo ai commenti di Ichino su “fuga dei cervelli” e dintorni. Verissimo che i ricercatori stranieri non vengono in Italia (vengono in pochi, per essere più precisi). Ma in realtà anche qui bisogna analizzare e approfondire, e se ne scoprono subito delle belle. Consideriamo il caso dell’ingegneria e delle scienze “dure”, cioè dei settori decisivi affinché una Unviersità possa chiamarsi tale, e il cui avanzamento è cruciale perché un paese possa davvero progredire. Noto, in passim, che Ichino e gli “economisti liberisti” all’italiana, questo fatto, ovvero l’importanza decisiva delle scienze all’interno della dinamica universitaria, lo negano strenuamente, riflettendo in questo la natura estremamente arcaica ed arretrata di parte del mondo imprenditoriale italiano e di buona parte del pensiero economico-giuridico che lo fiancheggia. Dunque, dicevamo che nel campo degli studi scientifico-tecnologici, gli stranieri in Italia vorrebbero venire, eccome. Ma quasi sempre si ritraggono, non appena vengono loro comunicate le tristi realtà del livello di salario che andrebbero a percepire, con gli assegni di ricerca fissati, per legge, ad un lordo massimo di 23.000 € annui, senza la possibilità di incremento, anche per gruppi di ricerca che potrebbero mettere a disposizione un budget superiore con fondi propri al 100% (per esempio ottenuti vincendo competizioni e calls europee). Questo è uno dei tipici “lacci e lacciuoli” contro i quali strepitano sempre Ichino e i liberisti, e uno dei più perniciosi. Ma, guarda caso, quando si tratta di Università Pubblica, Ichino e accoliti non si curano di questi problemi di funzionalità, anzi applaudono al maggior controllo politico e ai maggiori vincoli burocratici imposti dalla “riforma” Gelmini. Buffo eh?!? Se invece di blaterare di tasse cominciassimo a cambiare queste semplici cose, vedremmo come la situazione migliorerebbe prontamente. Ma questo, cioè il buon funzionamento della ricerca universitaria italiana, sembra non appassionare troppo Ichino e la sua compagnia di giro.
Ci sono poi le sgangherate giustificazioni che Ichino porta avanti per “mitigare” il fatto che, secondo tutti gli indici di valutazione possibili, le facoltà economiche e giuridiche italiane sono messe male, e ancora peggio se si vanno a vedere le Università “private” (finanziate generosamente con fondi pubblici attraverso vari meccanismi, più o meno occulti, su cui tornerò più sotto). Ancora una volta, Ichino nega validità a tutti gli indici e gli standard riconosciuti internazionalmente (con notevolissima dose di quel provincialismo che vorrebbe attribuire ai sostenitori dell’Università pubblica di qualità) per andare a citare i soliti studi, in italiano, dei soliti amici della Bocconi e dintorni, pubblicati dalle solite case editrici degli amici degli amici. Abbastanza patetico.
Ma il peggio deve ancora venire. Incredibili infatti sono le affermazioni di Ichino sul fatto che sarebbe inutile o addirittura controproducente recuperare una parte di evasione ed elusione fiscale (stimate tra i 200 e i 300 miliardi di € l’anno), ridurre i costi della politica (cioè dei soldi pubblici che vengono deviati agli apparati e ai “gruppi economici” a loro vicini, ormai stimati, prudentemente, in svariate decine di miliardi di € l’anno), e tagliare su spese pubbliche chiaramente inaccettabili, inutili, e/o dannose (con relativi giri di “costi della politica”) quali ad esempio Protezione Civile SPA e, soprattutto, Difesa SPA. Per quest’ultima parliamo di una spesa pubblica annua pari a 32 miliardi di € contro un bilancio per l’intero comparto universitario di soli 6 miliardi di € (dopo i tagli Tremonti). E’ incredibile che un “economista” come Ichino rifiuti di entrare nel concreto dei numeri e delle quantità, scendendo dal cielo degli slogan ideologici pseudo-liberisti e pseudo-liberali.
Veniamo ora al punto centrale della discussione tasse vs. spesa pubblica per l’Università: l’impressione di fondo in tutto questo dibattito è che Ichino e i suoi accoliti continuino a fare finta di non capire il fatto di base, semplicissimo e ovvio, che lo studio universitario e la preparazione che esso fornisce per vivere e operare in società, non sono un investimento INDIVIDUALE, bensì COLLETTIVO: se diventerò fisico e contribuirò a portare avanti la conoscenza, sarà la società nel suo complesso a beneficiarne, sarà un servizio pubblico reso alla collettività. Stesso discorso se diventerò medico, giudice, meteorologo, ingegnere. Ecco perché è giusto e sacrosanto che, come in tutti i paesi più civili e avanzati, il finanziamento dell’Università sia pubblico e reperito attraverso la fiscalità generale, e non attraverso assurde e vergognose tasse universitarie imposte ad hoc al singolo studente, per giunta, grazie alla situazione italiana, secondo un criterio anti-progressivo da piramide rovesciata, per cui chi è più povero finirebbe, a causa dell’evasione e di altri meccanismi, a pagare di più.
In ogni caso, è necessario opporsi a questo ritorno alla barbarie che vede tutti gli investimenti solo in termini di risultati individuali e non di prestazioni pubbliche, e che spesso è caldeggiato dalle parti più avide e amorali della nazione. Una proposta alternativa seria, di civiltà, oltre che eliminare i tagli al finanziamento ordinario delle Università pubbliche, deve contemplare l’aumento degli incentivi per i ricercatori che vogliono lavorare in Italia (stranieri o italiani di ritorno), e l’eliminazione dei vari modi surrettizi con cui lo Stato italiano finanzia le Unversità private, che devono dimostrare, una volta per tutte, di potersi reggere sulle loro sole gambe. Tutto questo si può fare, e i soldi in più per Università e Ricerca si possono facilmente trovare, è solo una questione di scelta politica, anche considerando, in parallelo, la necessità di ridurre il debito pubblico. E’ infatti ovvio che se, poniamo, si taglia del 50% l’assurda spesa per Difesa SPA (siamo al livello di una superpotenza come la Russia!), dei 16 miliardi di € annui risparmiati, ad esempio 10 possono andare in riduzione del debito, e 6 possono andare a università, ricerca, istruzione, sanità, e ambiente. E’ solo un esempio, e se ne possono fare moltissimi anni.
E’ quindi fondamentale rifiutare la logica, propria di Ichino, dei Bocconiani, e della destra liberista “all’italiana”, che se il debito c’è non importa capire come e dove e perché si forma, e cosa si deve fare per ridurlo, tagliando dove e in quali proporzioni. Il debito non è un “noumeno” inconoscibile ai poveri cittadini. Questo è quello che vorrebbero farci credere quelli che, con il trucco delle tre carte, desidererebbero continuare a far sì che vengano versate montagne di soldi pubblici là dove si possono realizzare (grazie ai peggiori intrecci con la politica) enormi profitti privati, e, contemporaneamente, tagliare là dove queste possibilità di profitto non ci sono, ovvero nei servizi fondamentali che lo Stato eroga ai cittadini. Ottenendo, tra l’altro, come risultato accessorio, ma non disprezzabile, di distruggere gli strumenti critici che lo Stato, attraverso l’Istruzione Superiore, mette a disposizione dei cittadini per poter essere consapevoli e poter smascherare, quando si verifichino, eventuali truffe, magari verniciate di furore ideologico liberista.
Infine, come già accennato, sarebbe fondamentale disporre di una riforma che mettesse davvero ordine nel sistema universitario italiano e imponesse, in particolare, degli standard finalmente seri e riconoscibili agli atenei privati. Sarebbe essenziale, in particolare, che non venga più consentito agli atenei privati di essere mono-facoltà (quasi sempre Legge o Economia) con docenti tutti o quasi tutti “prelevati”, a contratto, dagli atenei pubblici. Una seria riforma dovrebbe imporre agli atenei privati un lasso di tempo ragionevole, diciamo 5 anni, in cui assumere docenti propri a tempo indeterminato, pagati con risorse proprie, senza gravare più sugli atenei statali con il meccanismo dei contratti e dei congedi, e, contemporaneamente, dotarsi, chessò, almeno di una facoltà di scienze e di una di ingegneria. Solo così potrebbero finalmente dimostrare di poter aspirare a diventare qualcosa di serio, e dissipare l’impressione, che a volte danno, di apparire un grande carrozzone dispensa-“economisti” e dispensa-“legulei” pronti per andare al servizio dei ceti politici ed economici dominanti di turno.