Nuova puntata dell’Inchiesta di Repubblica.it
Gli atenei migliori? Con tanti stranieri. Ma l’Italia è ben ultima in Europa
Solo 57mila iscritti nelle nostre università. La maggior parte sono albanesi, poi cinesi, rumeni e dai paesi africani. Pochissimi casi di politiche per attrarre ragazzi di altri paesi. E meno di 60mila sono gli italiani all’esterodi CORRADO ZUNINO
ROMA – Le nostre università non sono internazionali né vogliono diventarlo. Solo 57 mila 447 sono gli studenti stranieri iscritti nei settantasette atenei italiani, 746 ragazzi a testa (in media). E nelle classifiche di riferimento europee siamo sempre in fondo: ultimi o penultimi nel confronto con i quattro big continentali (Inghilterra, Germania, Francia e Spagna) e gli Stati Uniti. Simile, al di sotto dei 60 mila, è il numero degli italiani all’estero, un’anomalia nel contesto Ue che, nei suoi paesi più sviluppati, presenta saldi ampiamente positivi: una nazione all’avanguardia spinge sempre i suoi giovani verso gli atenei del mondo. E nel mondo – la fonte è la Banca mondiale – ci sono 3 milioni e 343 mila studenti all’estero e oltre 627 mila, il 19% del totale, sono ospitati negli Stati Uniti. L’Inghilterra, con un decimo degli universitari stranieri nelle sue aule, e la Francia e la Germania, con il 7,3% a testa, hanno quattro-cinque volte la capacità attrattiva dell’Italia, oggi al 2%.
Perché è importante valutare la tensione internazionale di un singolo ateneo e del sistema universitario italiano? Perché l’internazionalizzazione – in entrata e in uscita – è un parametro che indica la competitività dell’università e aiuta a misurare due valori decisivi come “insegnamento” e “ricerca”. Il fenomeno inverso, chiamiamolo la “capacità Erasmus”, ovvero spingere studenti in atenei oltre i confini, mostra invece la propensione alla sfida dei nostri ragazzi e quindi la voglia di crescere di un paese intero. Il think thank della società italiana “Vision”, che ha curato la ricerca con un gruppo di cinque persone basandosi sui dati nazionali e internazionali di cinque istituzioni, considera il “fattore Erasmus” uno dei più importanti per spingere all’innovazione gli istituti universitari.
La comunità studentesca più numerosa in Italia è, sorprendentemente, quella albanese: nelle nostre università ne sono iscritti 10.961, quasi il venti per cento del totale. La comunità studentesca albanese in Italia è quindici volte più grande di quella francese e trentaquattro volte più grande di quella spagnola. Spesso, sono giovani immigrati di seconda generazione che hanno svolto i propri studi da noi dalla scuola di base dopo l’ondata migratoria da Tirana che esplose alla fine degli anni Novanta. Nella classifica dei gruppi etnici presenti nelle università italiane si trovano, a seguire, le comunità studentesche cinese e rumena. L’Italia è un approdo, quindi, per giovani del mondo africano e arabo: camerunensi, iraniani, marocchini. Ecco, gli studenti stranieri che approdano in Italia sono considerati meno qualificanti poiché non provengono, perlopiù, dai quattro paesi europei più sviluppati (Inghilterra, Germania, Francia e Spagna, appunto), dagli Stati Uniti (sono 368 l’anno), né dai quattro paesi emergenti più dinamici (Cina, India, Brasile e Russia). Dalla Cina arrivano da noi cinquemila giovani ogni anno quando in Germania sono 25 mila le matricole cinesi. Dall’India approdano in Italia 627 studenti l’anno quando verso l’Inghilterra ne salgono 26 mila. Gli studenti tedeschi che ospitiamo, in classifica, sono al quattordicesimo posto.
Restiamo ultimi, ma qui le distanze si assottigliano, anche sull’Erasmus vero e proprio: gli universitari che studiano all’estero per un periodo contingentato. L’Italia viene scelta dall’8,8% dei giovani europei, la Spagna dal doppio (favorita comunque dalla maggior diffusione della lingua). Sale di un punto percentuale (è al 9,8%) la quota di studenti italiani che usa il tram dell’Erasmus per studiare all’estero: peggio di noi solo gli inglesi.
Per lungo tempo i giovani italiani sono stati, insieme ai tedeschi, i più importanti migranti per studio: negli ultimi otto anni, però, abbiamo perso mezzo punto in percentuale, a dimostrazione di una stasi del paese che si è pietrificata nell’ultimo periodo. “Oltre a non avere studenti internazionali”, sostiene Vision, “non abbiamo una strategia di attrazione nei loro confronti, non c’è alcun piano”. C’è solo lo sforzo solitario di alcuni atenei come l’Università per gli stranieri di Perugia, in testa alla classifica “internazionalizzazione”, seguita dalla Bocconi di Milano, dall’altra università per stranieri di Siena e dai grandi Politecnici di Torino e di Milano.
E’ interessante, per spiegare la politica autonoma dei singoli atenei, seguire l’arrivo in Italia degli studenti cinesi, figli dell’economia più dinamica sulla terra e in questa fase storica “outgoing” per eccellenza: il 15,3% per cento degli studenti all’estero nel mondo sono cinesi. E la dinamica dei loro arrivi ci spiega come siano pochi e molto virtuosi gli atenei italiani impegnati a calamitare stranieri: il Politecnico di Torino, il Politecnico di Milano e l’Università di Bologna ospitano il 37% degli studenti cinesi in Italia e tutti e tre hanno costruito questo percorso solo negli ultimi cinque anni. E’ possibile, ecco, fare università moderna e attraente anche da noi, ma lo fanno in pochi.
In questo campo, la spinta all’internazionalità, vanno puntualmente male le università del Sud (la prima è quella del Sannio, al sedicesimo posto) e sono posizionati bene gli atenei piccoli e specializzati rispetto alle università grandi e generaliste (La Sapienza di Roma è al 19° posto). In cima alla lista ci sono, oltre, abbiamo visto, alle due specializzate di Perugia e Siena, l’Università di Bolzano vicina al confine con l’Austria (offre corsi in tre lingue), l’Università di Trieste vicina al confine con l’Austria e la Croazia e atenei come la commerciale Luigi Bocconi e i due politecnici di Torino e di Milano. Solo undici istituti su settantasette hanno iscritti provenienti dai quattro paesi emergenti (Bric) e dall’occidente avanzato per un peso maggiore dell’1%.
Che fare per deprovincializzare le università d’Italia, il paese che ha inventato le università? “Vision” suggerisce, fra le altre cose, di inserire fra i parametri che determinano l’assegnazione di incentivi anche quelli specifici dell'”internazionalizzazione”, quindi chiede di rendere obbligatorio in ogni ateneo l’esperienza dell’Erasmus e, soprattutto, di proporre ai talenti stranieri e italiani opportunità di impegno per l’Italia e in Italia.
(continua)
(18 aprile 2011)