Da Unicommon
Shut up! – In risposta a De Rita e Tremonti (e a Sacconi e Meloni). MONDAY, 18 APRIL 2011 16:44 FRANCESCO RAPARELLI
È proprio vero, l’Italia non è un paese che valorizza il merito. Come spiegare altrimenti il numero due del Cnr (Roberto De Mattei) e le sue boutade, come il prestigio del fondatore del Censis, il “sociologo” Giuseppe De Rita. Sul primo già molte penne hanno consumato i loro sforzi, sul secondo mi preme dire subito qualcosa, tanta è l’indignazione dopo aver letto l’intervista dallo stesso rilasciata quest’oggi a Repubblica.
Premessa, De Rita, nella sua intervista, commenta le dichiarazioni di Tremonti di due giorni fa. Al termine del vertice del Fmi, a Washington, il super-ministro dell’Economia ‒ l’unico uomo che conta in questo momento in Italia (vedi la vicenda Generali e le nomine di Eni, Enel e Finmeccanica) ‒ ha chiarito che se per tutti la crisi ha inaugurato una fase di «crescita senza occupazione», per l’Italia le cose stanno diversamente: in Italia c’è lavoro a non finire, semplicemente i giovani italiani sono poco inclini all’umiltà, hanno studiato troppo e si sono montati la testa. Sono i migranti, secondo Tremonti, ad accettare questi lavori, tanto che, secondo le sue stime, tutti i migranti in Italia lavorano. Con il solito razzismo Maroni ha precisato: non è vero che i giovani italiani non lavorano e, altrettanto, non è vero che i migranti lavorano, anzi, sono scansafatiche ed è meglio che stiano «fora dai ball». Al di là della competizione estremistica, ciò che conta è la sostanza del discorso tremontiano, la stessa sostanza del ritornello di Sacconi o della “brillantissima” Meloni (ma ve la ricordate, “somara”, alla Sapienza?). Il ritornello è davvero semplice: in Italia c’è un eccesso di forza-lavoro qualificata; questa eccedenza strutturale non va d’accordo con la composizione del capitale italiano (prevalenza della piccola e media impresa, subfornitura, bassissimo contenuto tecnologico e di innovazione); i giovani, troppo formati, si sono montati la testa, laddove, invece, devono abituarsi a fare «lavori umili e manuali». Questo il ritornello, la variazione tremontiana minima, la «solita merda».
De Rita, però, è un “esperto” e sappiamo quanto sono importante gli esperti. Cosa ci dice nella preziosa intervista rilasciata a Repubblica? Che i giovani devono smettere di studiare cose che non servono, devono piuttosto ritornare negli Istituti tecnici, evitare, se possibile, di andare all’università e, piuttosto, gettarsi immediatamente nel mondo del lavoro, umile e povero, e lì, solo lì, imparare tutto quello che c’è da imparare. La strategia della scolarizzazione ad oltranza ‒ continua il Nostro ‒ha già fatto guai nel nord Africa (evidentemente la democrazia, laddove si presenta sotto il segno della rivolta, non può che essere un disastro), mentre da noi provoca un «galleggiamento» ozioso e irresponsabile sulle spalle di nonni e genitori. Dopo anni di sostegno alla riforma del 3+2 l’intellettualità italiana che conta se la prende con le inutili triennali, stigmatizzando i precari, inadatti al mercato del lavoro. Incredibile. Superfluo aggiungere che nella riscoperta apologetica degli Istituti tecnici è sottinteso il disprezzo per le scienze umane, per quelle politiche, per la filosofia (chissà se almeno le scienze sociali sono importanti per De Rita?).
Non sono bastati i tagli che hanno distrutto l’università e la scuola, non sono state sufficienti le riforme gelminiane. La grande crociata contro il general intellect procede senza sosta: c’è bisogno di una continua umiliazione delle giovani generazioni, bisogna insultare chi ancora pensa che formazione e mobilità sociali funzionino assieme, bisogna distruggere il ’68, anche solo il vago ricordo della scolarizzazione di massa. I primi risultati, d’altronde, sono già visibili, la riduzione del 9 % in tre anni delle iscrizioni all’università parla chiaro, chiarissimo. Non basta la precarietà come orizzonte inaggirabile, c’è bisogno di un’eccedenza di senso e di motivazione: sono uno spreco (e dunque devono morire trafitti dal senso di colpa) tutti coloro che studiano cose che non servono.
Allora, con un po’ di odio, sano, vale la pena rovesciare la domanda: quali sono i saperi che servono in Italia? quali sono le imprese in cui si investe in innovazione e ricerca? quali sono le caratteristiche del mercato del lavoro nel Belpaese? esiste un mercato delle competenze? E ancora (domanderebbe il floridiano tiepido): come si esce dalla crisi senza investire in conoscenza e in innovazione? Quando si fanno queste domande il fondatore del Censis tace, il capitale, d’altronde, non ha mai colpe. Bisognerebbe spiegare perché la Germania cresce e l’Italia no, ma su questo il sociologo di regime, come l’economista, tacciono. Il capitalismo italiano fa schifo, è provinciale, bigotto e privo di prospettive? colpa dei giovani. Il welfare non c’è? colpa dei vecchi che hanno tolto ai giovani e poi colpa dei giovani, perché non fanno fuori la Fiom.
Ma noi non siamo floridiani e sappiamo che il declassamento della forza-lavoro qualificata, il blocco della mobilità sociale, l’intreccio tra liberismo, corruzione e autoritarismo, costituiscono un processo che non si discosta dal «divenire rendita del profitto» e dalla dinamica di rifeudalizzazione con cui il capitale cerca di proteggersi dal baratro della Grande depressione. Per questo i giovani tunisini ed egiziani e la loro rivolta per la democrazia raccontano una storia che riguarda Roma, Londra, Parigi. Per questo c’è stato il 14 dicembre. E su questo bisogna intendersi: il 14 dicembre e il tumulto dello scorso autunno sono stati un fenomeno collettivo di veggenza, ancora, un’anticipazione. Caro De Rita, caro Tremonti, il welfare familiare di buona tradizione italica sta per terminare, così come si assottigliano i risparmi e non si sa bene chi continuerà a pagare i mutui, le prime scosse telluriche hanno già lasciato il segno, ne arriveranno ancora altre, ancora più forti e non ci saranno argini utili. Non è che l’inizio, e il nostro odio sarà impeccabile.
Francesco Raparelli
L’intervista – Il sociologo fondatore del Censis,: piuttosto che master e corsi di specializzazione, serve il praticantato De Rita: Basta con gli studi inutili meglio andare a imparare in fabbrica” di Roberto Mania repubblica.it
— Basta corsi di specializzazione, basta master, basta studiare cose inutili. Serve un Grande piano nazionale per la formazione sul posto di lavoro, finanziato con soldi pubblici, per uscire dalla precarietà e per riportare i giovani anche al lavoro manuale. Lo dice Giuseppe De Rita, sociologo, fondatore del Censis, che ringrazia la crisi: «Senza di essa oggi non avremmo questa presa di coscienza tremontiana, visto che il fenomeno degli immigrati che prendono i posti degli italiani è iniziato qualche decennio fa». Dunque condivide l’analisi del ministro? Perché si è avviato questo processo di “sostituzione” nel mercato del lavoro?
«Nel 1977 il Censis fece la prima ricerca, finanziata dal ministero degli Esteri, sugli immigra-ti in Italia. Elo dicemmo allora: ci sono lavori che gli italiani lasciano agli immigrati. Sono i panettieri in Lombardia e in Veneto, i fonderisti in Emilia Romagna. Sono i raccoglitori di pomodori nelle pianure e i lavoratori domestici nelle metropoli. Da allora il fenomeno è diventato di massa. C’è stata una divaricazione nel mercato del lavoro: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall’altra gli immigrati che hanno coperto i buchi lasciati liberi. I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Gli abbiamo detto: investi in istruzione che il lavoro verrà. Abbiamo pompato frequenze e titoli di studio. Colpa della liberalizzazione degli accessi universitari. Colpa del ’68 ma anche dei ragazzi e delle famiglie per i quali il titolo di studio è simbolo di status». Ma sta dicendo che studiare fa male? «SI, se si studiano cose che non servono. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l’Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? Edei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d’essere? La strategia della scolarizzazione ad oltranza 61a stessa che ha portato i giovani nordafricani alla rivolta per la democrazia. Da noi, però, conduce solo al galleggiamento continuo finché ci saranno i pochi soldi dei nonni e dei padri.
Abbiamo costruito un monumento al generico rifiutando ideologicamente la formazione finalizzata al lavoro. Così la ragazza che si è prima diplomata e poi si è presa la laurea triennale in Scienze delle comunicazioni si aspetta il lavoro mentre è destinata alla frustrazione e alla precarietà. Tremonti dice una cosa esatta. Basta girare l’Italia: gli immigrati hanno occupato tutti i posti liberi nel lavoro manuale e molti sono diventati imprenditori, sub-appaltatori. Basta guardare la realtà». Come si concilia questa analisi con i dati dell’Istat e delta Banca d’Italia secondo i quali la prospettiva per i giovani è la disoccupazione o la precarietà? «Il precario è una persona che ha un tipo di formazione che mal si adatta al lavoro. Ma chi se lo prende un diplomato al liceo classico con una laurea triennale?».
Condannati alla precarietà? Non c’è via d’uscita? «Ci sono due strade: o quella che suggerisce Tremonti, cioè di tornare al lavoro manuale… «. Lo proporrebbe a uno dei suoi figli o dei suoi nipoti? «Io dico che se non vuoi torna-re al lavoro manuale devi accettare la formazione sul posto di lavoro. Serve un grande piano nazionale per formare sul lavoro i giovani, servono risorse pubbliche per incentivare i piccoli imprenditori a prendersi i precari e formarli. Il miracolo italiano dal ’45 al ’90 l’ha fatto gente che si è formata sul posto di lavoro. Dobbiamo smetterla di parlare di lavoro come un mito irraggiungibile. Il lavoro è questo e non anni di istruzione». Mala crisi ha peggiorato tutto. «La crisi ci ha imposto un bagno nella realtà».
Pochi tecnici Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici. Che ce ne facciamo dei diplomati generici?