Interessante articolo da Repubblica on line sulla figura dei dottorandi di ricerca: la discussione è aperta…
L’INCHIESTA
“Non è un paese per dottorandi”. Il serbatoio dei cervelli in fuga
Il PhD all’estero è l’inizio della carriera accademica, in Italia spesso l’anticamera del precariato. Borse fino a mille euro, ma la metà sono “ospiti paganti” degli atenei. Sempre di più, dopo aver conseguito il titolo, se ne vanno
di MANUEL MASSIMO
Studenti, ricercatori, professori: categorie ben definite all’interno del sistema universitario italiano, figure facilmente identificabili in base ai compiti che svolgono, al ruolo che rivestono e alle istanze che portano avanti tra le mura accademiche. Ma nei dipartimenti delle facoltà esiste anche la categoria “ibrida” dei dottorandi da sempre in cerca di un proprio status: studiano ma non sono più semplici studenti, fanno ricerca ma non sono ancora ricercatori a tutti gli effetti, tengono moduli didattici (spesso gratuitamente o dietro un compenso simbolico) e svolgono esami proprio come i professori titolari ma la maggior parte di loro – pur aspirando legittimamente a una cattedra – non riuscirà mai ad entrare in ruolo perché, nell’università dei tagli, ci sarà posto solo per 1 su 5 (il 20%). Così il titolo di “dottore di ricerca” o “PhD” – che all’estero è considerato come il primo step della carriera accademica – in Italia sempre più spesso rappresenta semplicemente l’anticamera del precariato intellettuale. Nonostante questa congiutura negativa gli iscritti ai corsi triennali di dottorato sono complessivamente 40mila (con circa 13mila nuovi iscritti l’anno).
O la borsa o la fame. L’ultimo provvedimento legislativo a favore dei dottorandi risale a quasi due anni e mezzo fa: a giugno del 2008 il ministro Mariastella Gelmini, all’inizio del suo mandato, firma il decreto di aumento delle borse di dottorato (pratica istruita dal suo predecessore Mussi prima
della caduta del governo Prodi, ndr) portandole da 800 a poco più di 1.000 euro mensili. Ma il beneficio economico non è rivolto a tutti: per legge le borse devono coprire almeno il 50% dei posti banditi. Così il vero nodo da sciogliere – mai affrontato dalla politica – riguarda la figura tutta italiana del “dottorando senza borsa” che per svolgere la sua attività di ricerca – fianco a fianco dei suoi “colleghi con borsa” – non solo non viene retribuito, ma si trova anche nella paradossale situazione di dover pagare le tasse universitarie. In pratica l’ateneo lo considera come uno studente postlaurea “ospite pagante”, quando in realtà i compiti svolti e le ricerche prodotte nei laboratori del dipartimento vanno a vantaggio dell’università e producono conoscenza (come le pubblicazioni scientifiche) e ritorno economico (nel caso di brevetti).
Trent’anni di dottorato. In questi giorni stanno scadendo gli ultimi bandi per le selezioni del XXVI Ciclo – in partenza a gennaio 2011 – e proprio quest’anno cade il trentennale del dottorato di ricerca in Italia, istituito per decreto nel 1980. Un anniversario che invita a tirare le somme. Fernando D’Aniello, segretario nazionale dell’Adi (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani), fa il punto della situazione partendo dalle criticità: “Il bilancio non può che essere negativo, per due ragioni: una strutturale, perché l’Italia è un paese che ha sempre investito poco nella ricerca e mancano sbocchi lavorativi adeguati; l’altra contingente, legata alla valorizzazione del titolo, visto che non riceviamo risposte concrete dalla politica. Sono anni che il ministro Gelmini annuncia di voler colpire i baroni e promuovere la meritocrazia negli atenei ma all’orizzonte non si vedono provvedimenti in tal senso”.
Se l’impresa pensa in piccolo. Una volta arrivati all’agognato traguardo, poi, chi giocoforza è costretto a cercare la propria strada fuori dall’università trova un contesto extra-accademico “penalizzante”, dove peraltro bisogna giocare anche contro il fattore tempo, come sottolinea D’Aniello; “Qui da noi il titolo si consegue mediamente a 29 anni, ma spesso il sistema produttivo – fatto di piccole e medie imprese – considera il dottore di ricerca come un semplice neolaureato, soltanto con tre anni di più sulle spalle, e non gli riconosce un trattamento economico più sostanzioso”. Insomma: più ombre che luci. Un’inversione di rotta potrebbe esserci solo con una reale valorizzazione del titolo a livello legislativo: valutandolo nei concorsi pubblici, promuovendo l’inserimento dei dottori di ricerca nell’insegnamento secondario e prevedendo dei finanziamenti “ad hoc” per favorire la loro assunzione nel mondo dell’impresa.
Identikit del dottorando. Il X Rapporto del Cnvsu (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario) è il più recente documento ministeriale disponibile che contiene dati sul dottorato di ricerca in Italia aggiornati all’a. a. 2008/2009. I numeri parlano da soli: c’è un’eccessiva frammentazione dei corsi (2.145); la capacità attrattiva di nuovi iscritti che hanno conseguito la laurea in un ateneo straniero è piuttosto bassa (7,3%); nel triennio 2005-2008 i fondi Miur a copertura delle borse di studio per i dottorandi si sono ridotti dal 58,6% al 50,5% e gli atenei hanno dovuto sopperire a questa mancanza aumentando la propria quota dal 21,5% al 30,6%. Per quanto riguarda i dottorandi: solo il 28,9% degli iscritti ai corsi si è laureato in un ateneo diverso da quello del dottorato; il 34,4% dei dottorandi non riceve alcun sostegno per il triennio di dottorato.
Bye Bye Italy. Alla luce dei dati il nostro sistema accademico appare eccessivamente chiuso e poco stimolante, specie se messo a confronto con le realtà accademiche straniere ad alto tasso d’internazionalità. Anche per questo non si fa fatica a capire perché una percentuale sempre maggiore di dottori di ricerca, in particolare di aree tecnico-scientifiche, decide di emigrare all’estero una volta conseguito il titolo. In alcuni casi la “fuga di cervelli” avviene con qualche anno d’anticipo e il periodo di dottorato si fa “fuori”: non solo per il miglior trattamento economico rispetto all’Italia, ma anche per l’ambiente aperto e multiculturale con cui ci si troverà ad interagire. In mancanza di una netta inversione di tendenza, come sottolinea un recente documento dell’Ufficio scientifico dell’Ambasciata d’Italia in Svezia: “Si accentuerà la tendenza dell’Italia a divenire solo un mercato, senza una posizione realmente competitiva nel campo scientifico e tecnologico nell’Unione Europea. Paradossalmente, in questa situazione, i ricercatori formati nelle università italiane contribuiscono al declino dell’Italia stessa, creando nuova conoscenza e attirando capitale nel nuovo paese dove sono emigrati e dove riescono ad applicare con successo la loro formazione”. Il resto del mondo sentitamente ringrazia.
In questo articolo però si è dimenticato di parlare del potere che hanno i tutor sui dottorandi. In italia se sei fortunato e trovi un tutor “illuminato” allora puoi fare ricerca in piena libertà e autonomia altrimenti sei costretto a vivere una vita monacale, sotto una dittatura e neanche sai se potrai mai fare carriera. Credo che il motivo principale per cui tanti giovani scappano dal nostro paese sia proprio questo, al di là dei soldi, che ovviamente servono.
Secondo noi sarebbe necessario che chi vince una borsa di studio debba scegliersi lui con chi lavorare, cambierebbero tante cose.