Articolo da Il Sole24ore, Massimiliano Bucchi
La ricerca italiana e quella frattura tra generazioni.
C’è un dato che meglio di ogni altro fa comprendere la difficoltà di intervenire sull’università e sulla ricerca italiana. E’ quello relativo all’età del personale docente.
L’Italia ha la quota più bassa di docenti con meno di 40 anni di tutti i ventisette Paesi europei: meno del 16%. In Francia e Spagna la percentuale di docenti ‘giovani’ è esattamente doppia della nostra. In Svezia, Olanda e Germania supera il 40%. Ma perfino in Bulgaria, Belgio e Portogallo – Paesi che certamente non brillano su scala internazionale per investimenti in ricerca – gli ‘under 40’ sono nettamente più rappresentati che da noi. Su dieci docenti attivi in Italia, quasi sei hanno più di cinquant’anni, e anche questo purtroppo è un record assoluto: in gran parte degli altri Paesi gli ultracinquantenni sono un terzo del totale, se non di meno.
Questo dato non deve naturalmente essere tradotto nella necessità, come talvolta semplicisticamente si sostiene, di ‘rottamare’ indiscriminatamente le fasce più anziane della docenza.
E’ chiaro che vi sono situazioni estremamente diverse, e che non mancano gli studiosi in età avanzata ancora attivi o in grado di rappresentare punti di riferimento per le nuove generazioni.
Tuttavia è altrettanto evidente, come numerosi studi a cominciare da quello classico di Thomas Kuhn hanno dimostrato, che è proprio nelle fasce di età più elevate che si concentra la maggiore resistenza al cambiamento, inteso sia come rinnovamento dei contenuti e dei metodi della ricerca, sia come cambiamento sul piano organizzativo.
L’età elevata del personale docente rappresenta però un aspetto critico soprattutto se la si considera nel contesto delle opportunità per i ricercatori più giovani. Prendiamo un esempio concreto e certamente animato da intenzioni lodevoli, come il recente programma “Futuro nella ricerca”. Questi finanziamenti, rivolti a ‘giovani’ ricercatori sotto i trentasei anni, prevedono tra i requisiti almeno sei pubblicazioni su riviste internazionali. Requisito, di per sé, certamente ragionevole e indiscutibile in un Paese che ambisce a confrontarsi con la competizione europea e globale nella ricerca.
Il problema è che i vincitori selezionati dal programma si troveranno a lavorare in contesti in cui tali requisiti sono tutt’altro che scontati. A decidere sul futuro delle loro carriere saranno, infatti, in molti casi, docenti appartenenti a una generazione che non ha dovuto necessariamente confrontarsi con standard internazionali così rigorosi – e spesso, anzi, neppure con veri e propri concorsi, né con gli studi di dottorato. Perdipiù, in un meccanismo di progressioni di carriera che sinora si è basato quasi esclusivamente sull’anzianità, è evidente che le decisioni strategiche e la governance sono prerogativa proprio di questi ultimi.
Insomma, è inutile girarci attorno. Come numerosi altri settori dell’amministrazione pubblica, l’università e la ricerca italiana si trovano nel pieno di una frattura generazionale: da un lato aspiranti ricercatori a cui sin dall’inizio sono applicati (e lo ripeto: giustamente) rigorosi standard internazionali; dall’altro, un ’ampia maggioranza di docenti in età elevata la cui qualità e produttività è stata sinora affidata (talvolta con esiti anche molto positivi, ma pur sempre idiosincratici) alla buona volontà individuale.
L’attuale scarsità di risorse non fa che esasperare questa frattura, scoraggiando proprio quei giovani più promettenti che, potendo contare su valide alternative all’estero, non hanno intenzione di inserirsi in un simile quadro.
Affrontare questa situazione con misure drasticamente schematiche o facilmente demagogiche non è certamente auspicabile. Ma continuare a ignorarla, e fingere che possa essere risolta con piccoli aggiustamenti o modeste iniezioni di risorse aggiuntive, sarebbe ancora peggio.