Sulla riforma dell’Università – editoriali da Il Manifesto

Editoriali/Commenti usciti sul Manifesto in merito alla riforma. 

La riforma del Gattopardo, di Alessandro Dal Lago; La conoscenza non è mercato, di Marco Bascetta. 

UNIVERSITA’- La riforma del Gattopardo
Alessandro Dal Lago

Ogni discussione seria sulla situazione dell’università (e quindi sul Ddl Gelmini) non può che partire da un accordo preliminare sulla funzione dell’istituzione accademica. Da un paio di secoli circa, qualsiasi università degna di questo nome si basa su un presupposto semplice: l’unico fine che la formazione superiore dovrebbe servire è la conoscenza in quanto tale. Da Kant e Wilhelm von Humboldt al cardinale Henry Newman, senza dimenticare Max Weber e Karl Jaspers.

L’idea classica di università, oggi visibilmente al tramonto, ruota intorno al principio della libertà di ricerca e ad alcuni corollari: che né il potere politico, né gli interessi privati possono interferire nella ricerca e nell’educazione degli studenti, che solo gli scienziati giudicano gli scienziati, e che l’università è responsabile davanti alla società del modo in cui usa la propria libertà.

Questo è lo spirito che si respira in una vera università. Dal ruolo che tradizionalmente gli studenti svolgono di opposizione sociale e politica (dal maggio ’68 sino alla Teheran d’oggi) sino alle bizzarrie in tema di abbigliamento e stile di vita dei professori, la libertà accademica è il lusso che una società sviluppata e democratica lungimirante dovrebbe concedersi facilmente, riconoscendone le ricadute positive. Che si tratti di algoritmi o di scoperte, di interpretazioni giuridiche o letterarie, di nuove cure o nuove tecnologie, ciò che l’università produce liberamente torna in forma di valore aggiunto conoscitivo, civile e culturale alla società che l’ha reso possibile.

Il privilegio accademico ha naturalmente delle contropartite. I professori devono meritare la loro posizione, e ciò significa che solo la loro capacità e produttività (da accertare in base a ciò che fanno, secondo criteri di valutazione inevitabilmente convenzionali, ma applicati universalmente) giustifica la loro posizione; devono rendere conto alla collettività non di ciò che ricercano, ma dei soldi che spendono nella ricerca e, soprattutto, hanno il dovere di rendere pubblici e trasparenti i criteri e le procedure con cui cooptano o promuovono quelli che un giorno li sostituiranno.

In altri termini, l’università può essere libera solo se è responsabile. Su questo piano, spiace dirlo, non solo i governi di centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent’anni si sono dimostrati disastrosi, ma il ceto accademico ha dato il suo efficace contributo al disastro. Farò un esempio di connivenza oggettiva. Anche i sassi sanno ormai che la riforma Berlinguer è fallita perché imposta dalle lobby accademiche che vi hanno trovato un meccanismo ideale per moltiplicare posti e poteri. Al di là delle proteste puramente verbali della Conferenza dei rettori per il taglio incessante dei fondi, tra i governi degli ultimi anni e i grandi gruppi di potere accademico c’è sempre stata una corrispondenza d’amorosi sensi.

Ma la connivenza tra baronati e ministri va oltre. Dopo la comparsa priva di tracce ed effetti di personaggi incompetenti come Moratti e Mussi, il ministro Gelmini – che probabilmente di questioni universitarie non mastica molto, ma deve avere dei consulenti che hanno obiettivi assai chiari – dà un’ulteriore sterzata dirigistica non solo imponendo a tutte le università la stessa struttura di governo, ma aumentando a dismisura il potere del rettore e conferendo la facoltà di eleggerlo ai "professori ordinari in servizio presso università italiane in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione, anche a livello internazionale, nel settore universitario, della ricerca o delle istituzioni culturali" (art 2, comma 2, capo c). In altri termini, solo un ristretto gruppo di baroni eleggerà il rettore, e poiché di norma i rettori che contano sono medici e ingegneri, chiunque capisce quali sono i gruppi di interesse, accademici e non, coinvolti nella vera "governance" dell’università.

In base ai principi della libertà e della responsabilità esposti sopra, alcuni punti del Ddl sono del tutto inaccettabili, mentre altri, sulla carta, potrebbero essere discussi. Tra i primi c’è il quaranta per cento dei posti in Consiglio di amministrazione riservati ai "privati", senza alcun vincolo di finanziamento (con che diritto i privati contribuiscono alle decisioni in materia di vita accademica se non danno contributi?). E lo stesso vale per un’agenzia di valutazione dai contorni indefinibili, ma aperta ai privati e soggetta visibilmente all’imperio del ministro. E non parliamo delle norme in materia di reclutamento. Al di là dell’"abilitazione" nazionale dei futuri docenti, che riprende idee vecchie quanto il mondo e in fondo l’antica libera docenza, la composizione delle commissioni è ovviamente macchinosa, come sempre, e si basa su un principio, il sorteggio, che sostituisce in parte il mero caso alle vecchie spartizioni nazionali. Nei settori scientifico-disciplinari organizzati, e cioè quelli che hanno un potere reale, è facile prevedere che il sorteggio non cambierà di molto le cose.

Il principio della valutazione della ricerca individuale in linea di principio è sacrosanto e non si capisce perché incontra tante resistenze a sinistra (o meglio si capisce benissimo). Chi è vecchio del mestiere sa che l’università italiana si porta dietro, a ogni livello gerarchico, una sacca di docenti i quali, ammesso che abbiano fatto ricerca da giovani, a un certo punto smettono o vivacchiano, facendosi i fatti propri o interessandosi esclusivamente dei propri micropoteri. Che i contribuenti paghino lo stipendio a simili "professori" – e non sono pochi – i quali oltretutto occupano posti che potrebbero essere riservati ai giovani è una vergogna dell’università italiana. E io non trovo nulla di scandaloso nel fatto che siano previsti incentivi per i più meritevoli, quelli che lavorano di più e meglio. Semmai, ciò che è privo di senso è i che fondi per l’incentivazione siano gestiti dal ministro dell’Economia: questo significa soltanto che il ministro detterà alla comunità accademica criteri di valutazione che saranno tutto tranne che scientifici. Quanto al fatto che tali fondi deriveranno (a parole) dal gettito del famigerato scudo di Tremonti, l’equazione tra denari illeciti e finanziamento della scienza parla da sé.

Anche i ricercatori a tempo determinato in teoria potrebbero essere accettabili (se non altro per metterli alla prova ed evitare che uno entri all’università e il suo lavoro non sia valutato mai più). Ma poiché siamo in Italia e la "riforma" è a costo zero, appare evidente che i contratti a tempo determinato sono solo nuovo precariato, oltretutto senza alcuna indicazione sugli sbocchi futuri.

A me pare che il Disegno di legge Gelmini manipoli più o meno abilmente alcuni principi che sono diventati.nel bene e nel male senso comune dell’università (valutazione, merito, efficienza ecc.). Ma ho l’impressione che il suo obiettivo sia soprattutto rafforzare l’università italiana in senso verticistico, attribuendo tutto il potere all’alleanza tra rettori, gruppi baronali e attori esterni. In realtà, nel Disegno di legge il controllo su quello che davvero fanno i professori è del tutto aleatorio e fumoso, la valutazione è una chimera e la semplificazione delle strutture al servizio di un’organizzazione più dispotica di prima ma burocratica quanto in passato.

Se si tiene conto che i finanziamenti sono in costante diminuzione e che i difetti strutturali non sono scalfiti in nulla, il risultato del disegno di legge Gelmini sarà un’università culturalmente modesta, ancor meno competitiva sulla scena internazionale e assoggettata al potere politico. Insomma, una riforma roboante ma gattopardesca nello stile della destra italiana, affinché tutto sia come prima o magari peggio.

(Il Manifesto 7 novembre 2009)

La conoscenza non è mercato
Marco Bascetta

La questione dell’Università, del suo futuro e del suo significato, fuori dalla retorica della conservazione travestita da riformismo, può ridursi a una semplice domanda: chi deve dettare gli indirizzi, le linee di sviluppo, gli scopi, gli obiettivi? Chi deve invece adattarvisi? È il mercato del lavoro, ovverosia la domanda asfittica di un sistema di imprese intento a salvaguardare i propri profitti nelle forme più banali e meno impegnative possibili, oppure il luogo di produzione e trasmissione di un sapere non piegato ad accompagnare la piatta riproduzione dell’esistente con modeste trovate di razionalizzazione? CONTINUA | PAGINA 10
Il compito dell’Università non è quello di adeguarsi al mercato del lavoro, come decenni di riformismo fallimentare (in larga parte di sinistra) hanno vanamente preteso che facesse, ma di scardinarlo. Non di fornire conoscenze precarie a un ciclo produttivo dominato dalla miope contingenza degli interessi aziendali, ma di rompere, per usare la più classica delle formule, la gabbia dei rapporti di produzione a favore dello sviluppo delle forze produttive.
Se non vi è eccedenza, se la ricerca e la didattica ( che non sempre e sempre meno si lasciano nettamente distinguere) non si spingono oltre l’utilità dell’oggi, non rifiutano il «merito» dell’adattamento, non aprono, per così dire, dei «possibili» che solo in parte sono destinati a realizzarsi, allora davvero la nostra Università non meriterebbe né risorse, né attenzione, né pietà.
Quando si dice «valore della conoscenza in sé» non si intende chissà quale squisito ideale umanistico, ma la necessità concreta e materiale di questa funzione. Questo dovrebbe essere il metro di una valutazione (scientifica, politica e sociale ad un tempo) al vaglio della quale cadrebbero prima di tutto quella miriade di master, specializzazioni, effimere figure professionali, lauree brevi, titoli (di studio) spazzatura che si sono voluti far passare per la via maestra all’efficienza e all’«eccellenza», con la complicità di un baronato accademico che non ha mancato, insieme all’industria fiorente e truffaldina della formazione privata, di trovarvi il proprio tornaconto. Sebbene i sinistri «riformisti» che pontificano dalle colonne del Corriere della sera non se ne accorgano o fingano di non accorgersene, l’economia (meglio, la diseconomia) della conoscenza risponde a una logica del tutto diversa da quella delle merci. Se si sono ripetutamente date nella storia, e continuano a darsi, crisi da sovrapproduzione di merci, una crisi da sovrapproduzione di sapere (tolto l’episodio di Eva e della mela) suona come un puro e semplice controsenso.
Lo sa bene l’industria culturale, e non solo, che da questa sovrapproduzione trae profitto, tanto sul versante del consumo (a un certo contenuto culturale dei prodotti deve corrispondere un livello analogo dei consumatori) che su quello della produzione, ripagandola con il precariato, la disoccupazione intellettuale di massa e l’indecente invito all’umiltà, rivolto ai giovani dal ministro Sacconi.

(Il Manifesto 8 novembre 2009)

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