Entriamo nel «merito» (di Gigi Roggero)
Chi volesse intraprendere la certo non avvincente lettura del gelminiano "Disegno di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema universitario, di personale accademico e di diritto allo studio" presentato ieri può tranquillamente cominciare dalla fine:
«Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
Ecco la cosa importante: la strategia del governo consiste in tagli e dismissione, punto e basta. A partire da qui, si possono leggere a cuor leggero le trenta cavillose e confuse pagine del Ddl certi di averne afferrato il senso. Non è un caso, del resto, che nonostante si premetta che
ogniqualvolta si parli di "Ministero" ci si riferisca a quello dell’istruzione, mentre in realtà l’altro Ministero – dell’economia e delle finanze – è citato in ugual misura a proposito delle questioni di centrale rilevanza.
Il Ddl è suddiviso in tre parti: governance, meritocrazia, personale accademico. È un progetto di aziendalizzazione dell’università, potrebbe dire qualcuno. Preferiamo però non concedere con troppa facilità all’avversario la perversa dignità di una parola che – per accordarci subito con il leit motiv del testo – non "meritano", né per intelligenza né per coraggio strategico. Vediamo infatti in cosa consiste la via italiana all’aziendalizzazione, da tempo sognata dagli algidi ideologi della Bocconi e del Corriere della Sera.
Da sempre, si sa, le imprese italiane hanno avuto un ruolo parassitario rispetto al sistema formativo, succhiando forza lavoro istruita e non versando una lira prima e un euro poi; i baroni, dal canto loro, hanno potuto riprodurre privilegi e posizioni di rendita, affidate loro dallo Stato. Questo Ddl cerca forse di modificare il ruolo del privato-parassita e scalfire le rendite di posizione del pubblico-feudale? Niente affatto. Anzi, rafforza entrambi. Da un lato, garantisce alle aziende la condizione migliore per continuare a succhiare indisturbate senza investimento e senza rischio. L’articolo 2, che disegna «organi e articolazione delle università», attribuisce maggior peso decisionale al consiglio di amministrazione, che deve essere composto da «personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza
professionale di alto livello», con una «non appartenenza di almeno il quaranta per cento dei consiglieri ai ruoli dell’ateneo a decorrere dai
tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico» (lettera g). Insomma, il piccolo o medio imprenditore del Nord-est, iperspecializzato nella produzione di un pezzo ultraspecifico nella filiera globale dell’occhiale o dello scarpone da montagna, che sfrutta ad alta intensità forza lavoro a bassa scolarizzazione o pagata come tale anche quando non lo è (i migranti), non verserà certo soldi nelle esangui casse degli atenei. In compenso, potrebbe però condizionarne la politica e le scelte: se nel brevissimo periodo servono tecnici specializzati in un campo di cui si fa fatica perfino a pronunciare il nome, perché non aprire un corso di laurea a veloce obsolescenza finché il mercato non sarà saturo e tagliare inutili e costosi dipartimenti, che non servono nemmeno a sfornare un operaio specializzato?
I baroni, dal canto loro, possono rallegrarsi delle «norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernente il reclutamento». L’istituzione dell’«abilitazione scientifica nazionale» per i docenti di prima e seconda fascia, di durata quadriennale, è decisa da una commissione nazionale formata mediante sorteggio tra professori ordinari. Ciò che viene fatta passare per una norma che scavalca le lobby accademiche locali, non solo lascia l’«abilitazione» nelle mani delle cricche degli ordinari a livello nazionale, ma poche pagine più avanti (articolo 9, comma 2, lettera c) fa rientrare dalla finestra ciò che era apparentemente uscito dalla porta. La decisione finale, infatti, spetta alle commissioni locali composte da ordinari e, nel caso dei ricercatori, da alcuni associati. Il posto da ricercatore, poi, come già stabilito dalla legge Moratti nel 2005 è posto in esaurimento, quindi sostituito da contratti di soli tre anni rinnovabili – previa valutazione – un’unica volta, aumentando così la ricattabilità dei ricercatori stessi nel vincolo individuale con il docente di potere.
Inutile dire che la frase «senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica» ricorre, in questi articoli come in tutto il testo, in modo ossessivo come premessa e sostanza. Non solo: se non ci sono adeguate risorse, professori e ricercatori possono essere «collocati a riposo». Amen.
In questo quadro di governance di un’università abbandonata alla sua inerziale rovina, gli studenti devono essere resi complici della nave che affonda: i loro «rappresentanti» vengono quindi «integrati» come stakeholder (del fallimento), ovviamente subalterni e privi di potere decisionale. Non solo: di fronte alla «razionalizzazione» dei fondi (forma elegantemente manageriale per definire la mannaia che, brandita dai consigli di amministrazione, si abbatte sulle risorse residue del sistema formativo), gli studenti devono dimostrarsi «meritevoli». Ciò garantisce l’accesso ai prestiti d’onore, nome curioso con cui si etichetta quel sistema del debito che, fallito negli Usa, è alla radice della crisi contemporanea. Ma è il
Ministero (quello dell’economia e delle finanze, prima ancora di quello dell’istruzione, dell’università e della ricerca), attraverso il "Fondo
speciale per il merito finalizzato a sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti, individuati tramite prove nazionali standard", a disciplinare i ferrei criteri per avere accesso al prestito. Insomma, ci sono molte più possibilità con "Win for Life"!
Vorremmo a questo punto poterci dedicare a dimostrare come il lessico della meritocrazia sia la mistificante retorica che rovescia la realtà
del declassamento e della precarietà nelle illusioni giustizialiste di un mitologico mercato non corrotto e di una competizione moralmente pulita. Purtroppo dobbiamo partire da molto più indietro, dicendo che la meritocrazia (come le riforme) non si fa a costo zero: il caso americano e i miliardi di dollari pubblici e privati investiti nelle università sono un noto esempio. In Italia va innanzitutto evidenziato che la meritocrazia, prima ancora di tutto il resto che si può dire su di essa, funziona al contrario, ovvero è ciò che giustifica i tagli.
Anziché essere un (peraltro discutibile) premio per pochi, significa peggioramento delle condizioni di vita e dequalificazione del sapere
per tutti. Al limite, stabilisce una gerarchia per vedere a chi andrà molto male e a chi meno. Prendiamo i cosiddetti percorsi di "eccellenza". Negli Stati Uniti sono delle classi riservate alle élite in cui gli studenti vengono a contatto con lo star system dell’università globale. In Italia si rinomina il vecchio corso di laurea come percorso di eccellenza, recintandone l’accesso, e si abbassa ulteriormente la già scarsa qualità dei restanti piani di studio, che sono resi ancor più rigidi e insulsi. La "meritocrazia" è così utilizzata per scaricare sugli studenti la mancanza di qualità dei docenti.
Solo che si pone ora la questione: come si ripiana il debito?
Con corsi aggiuntivi, che peserebbero sulle già dissestate casse dell’ateneo? O esigendo un numero maggiore di crediti di quello previsto, allungando così i tempi della laurea triennale, procurando costi aggiuntivi e mandando ulteriormente in fumo il già svanito obiettivo della riforma del 3+2, cioè l’eliminazione del "fuoricorsismo"? Nessuno sa rispondere. Nel frattempo, però, lo studente – con o senza "merito" – deve essere formato ad essere precario indebitato. E la crisi dell’università, così dice il coro unanime da via Solferino a viale Trastevere, passando per senati
accademici e consigli di amministrazione, la paghino gli studenti attraverso l’aumento delle tasse. Noi che la combattiamo sappiamo che
l’aziendalizzazione è una cosa seria. In attesa di trovare un nemico all’altezza, diciamo con chiarezza che questa riforma dell’università
si chiama, banalmente, truffa.