L’antropologia negata
(silvia Jop, 23 ottobre 2009)
In un paese che respinge esseri umani in fuga da guerre, violenze, pandemie, povertà, che fa della diversità un tratto da recidere, che taglia i fondi alla ricerca, che costringe alla precarietà tre generazioni di lavoratori e che strumentalizza le culture territoriali per esercitare un’azione di revisionismo sulla propria storia, l’antropologo finisce per essere una scomoda presenza. Basata su esprienze di campo e agita attraverso l’osservazione partecipante, l’antropologia propone pratiche e riflessioni d’incontro e confronto.
Dallo studio sulle condizioni dei migranti, sulle pratiche di cura, sulle radici dei significati di diversi paradigmi di pratiche e pensiero, alla tutela e la patrimonializzazione dei beni materiali e immateriali, all’interno dei quali si annida la storia delle nostre lingue e il senso del nostro agire, gli antropologi contribuiscono ad una radicale riflessione sulla contemporaneità.
L’ennesima lesione inflitta a questa categoria di studiosi e lavoratori, prodotta dall’accordo sulla revisione dei profili professionali stipulato tra sindacati e ministero, ha mobilitato in maniera trasversale tutte le parti sociali che costituiscono la realtà universitaria e non, dell’antropologia Italiana.
Da Torino alla Basilicata, passando per Milano, Siena, Perugia, Cagliari, Roma, Messina, i presidenti di molti corsi di laurea, alcuni dottorandi, numerosi studenti e diverse associazioni come Aisea e Simbdea, di indirizzo antropologico, hanno espresso il proprio dissenso e la propria preoccupazione inviando lettere di protesta al ministrero per i beni e le attività culturali. A prendere posizione pubblica nei confronti di tale provvedimento sono stati anche diversi esponenti del panorama nazionale di tale disciplina a partire da Pietro Clemente, Ugo Fabietti, Alberto Mario Cirese fino ad arrivare a Berardino Palumbo, Francesco Remotti, Giulio Angioni e Lugi Maria Lombardi Satriani.
Al contempo, gli studenti di Siena stanno cercando di creare una rete di comunicazione tra gli studenti dei corsi di antropologia sparsi per la penisola al fine di creare un momento d’incontro, nazionale, durante il quale provare a stilare una piattaforma condivisa [per info: collettivodiantropologia@googlegroups.com].
La trasversalità di tale mobilitazione potrebbe ora gettare le basi per un’ampia e condivisa rilfessione sui problemi strutturali che caratterizzano i percorsi di formazione e specializzazione di indirizzo antropologico in relazione alle possibilità d’accesso al mondo del lavoro.
La questione contingente infatti va ad inserisi in un contesto di già conclamata negazione. Esclusi per eccesso di debiti formativi dalle classi di insegnamento in filosofia e esclusi assieme ai sociologi anche dalle nuove tabelle ministeriali che prevedono l’attivazione di nuovi corsi in scienze sociali, gli antropologi vengono tenuti ai margini della formazione italiana.
Assistiamo dunque ad una somma di contraddizioni e paradossi che incastra una categoria di studiosi e lavoratori in un non-riconoscimento che consegue nella negazione del loro diritto ad una specifica professionalità.
Un’importante puntualizzazione è relativa al senso della rivendicazione della necessità di riconoscimento della figura dell’antropologo in termini professionali. Questa infatti non è tesa ad alimentare una prospettiva che affidi la propria efficacia alla parcellizzazione dei saperi. Bensì, si impegna a dimostrare come l’unione degli approcci e delle pratiche sia attuabile e produttiva solo se in prima istanza ad ogni disciplina viene garantito diritto di cittadinanza.