Articolo da Liberazione (dalla mailing list nazionale ondaprecaria@autistici.org)
È ricco di novità il “pacchetto” di provvedimenti
sull’università approvato ieri dal Consiglio dei Ministri. Si va
dallo sfoltimento dei corsi universitari all’avvio della nuova
agenzia di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR), già
nell’agenda del ministro Mussi. Ma la notizia più rilevante riguarda
i denari, com’era prevedibile. Per la prima volta, infatti, una quota
del finanziamento pubblico alle università verrà assegnata sulla
base delle performance degli atenei, secondo una graduatoria
presentata in anteprima dal ministro. Per il momento, il
finanziamento basato sul “merito” è limitato al 7% del totale
(525 milioni di euro su circa 7 miliardi complessivi), ma
l’intenzione dichiarata è di aumentare tale percentuale nei prossimi
anni.
La novità è importante: sinora, i
fondi erano ripartiti secondo le necessità degli atenei, misurate
dal numero degli studenti iscritti e dei ricercatori attivi, al fine
di garantire un servizio pubblico di livello accettabile in ogni zona
del paese. Ora, invece, il ministero ha classificato il “prodotto”
degli atenei, censendo il numero di studenti laureati nei tempi
previsti, la percentuale dei laureati che trova lavoro e i
finanziamenti europei acquisiti dai ricercatori. Nulla di male, in
sé: la scarsa trasparenza degli atenei, finora, ha protetto la
gestione clientelare di tanti baroni e rettori. Un po’ di valutazione
esterna può solo far bene, se serve a far emergere le magagne di un
sistema malato. Il problema è che la graduatoria conterà per
assegnare i finanziamenti del ministero.
È questo il punto più delicato del
“pacchetto”. Premiando il merito si rischia di creare un sistema
universitario a due velocità, con atenei di serie A e B. Infatti, a
ricevere più finanziamenti saranno le università che già oggi
funzionano meglio. Per contro, quelle con più problemi e più
bisogno di aiuto avranno difficoltà a far meglio. Perché disporre
di meno soldi significa fornire peggiori servizi agli studenti e
minori fondi ai ricercatori. Difficile laurearsi in corso facendo
lezione nei cinema, o vincere progetti europei senza strutture
adeguate. Perciò, il nuovo criterio di finanziamento pubblico non
aiuta il sistema a migliorare nel suo complesso, colmando le molte
lacune e riducendo le disparità; al contrario, imita i meccanismi di
mercato e allarga le disuguaglianze in un settore che rimane, fino a
prova contraria, un servizio pubblico da garantire a tutti i
cittadini in ugual misura. Una riforma di ispirazione neo-liberista
anacronistica, se persino negli USA si discute – almeno in ambito
sanitario – di allargare la sfera dei diritti a chi non può
accedervi per censo.
Scorrendo la classifica degli atenei
stilata dal ministero ci si accorge di altri paradossi: le università
migliori (quelle di Trento, Milano e Torino) sono anche quelle che
attirano i maggiori finanziamenti privati: 76mila euro per docente a
Trento, 40 mila a Milano e a Torino secondo un’indagine recente del
Sole-24Ore. Perciò, i soldi dei contribuenti finiranno a chi ne ha
meno bisogno, lasciando in braghe di tela gli atenei situati in
territori privi di un’imprenditoria in grado di investire in borse di
studio, ricerca e innovazione. La distribuzione geografica degli
atenei virtuosi e negligenti è impressionante: sui 27 atenei
bocciati, 24 sono nel centro-sud. In parole povere, le tasse dei
cittadini delle aree svantaggiate garantiranno i servizi di alto
livello per gli studenti del nord. Con buona pace del tanto predicato
“rilancio del mezzogiorno”.
Eppure, non udiremo critiche dai banchi
dell’opposizione: Maria Stella Gelmini, infatti, porta a compimento
un disegno comune anche ai governi di centro-sinistra che l’hanno
preceduta. Il “finanziamento al merito” è un tassello di un
piano più complessivo che culminerà, nei piani del governo, con
l’abolizione del valore legale della laurea: e anche su questo tema
il PD si è già dichiarato favorevole ad appoggiare un’eventuale
iniziativa del ministro. A quel punto, con un sistema universitario
non più tenuto a rispettare ovunque standard qualitativi minimi,
anche la legge sancirà che una laurea presa a Milano varrà meno di
un titolo conquistato a Messina.
L’impatto di un sistema universitario
diviso tra eccellenza e mediocrità sarà tanto più grave per
l’assenza di un welfare in grado di supportare la mobilità
territoriale. La concorrenza tra le università, infatti, genera un
miglioramento qualitativo del sistema solo se i consumatori, cioè
gli studenti, potranno scegliere l’ateneo cui iscriversi in base alla
qualità. Ma questa “concorrenza perfetta” non è affatto
realizzata. Senza borse di studio sufficienti, aiuti per la casa,
reddito universale, l’accesso alle università migliori è precluso
in partenza, per chi proviene dalle regioni più svantaggiate. Ciò
conferma che la riforma dell’istruzione e quella del welfare
non possono essere separate: non a caso, il legame tra crisi
economica, precarietà ed università è stato al centro del
movimento studentesco dell’autunno. E purtroppo è rimasto
inascoltato.