Il Manifesto e Famiglia Cristiana sulle Fondazioni

Sul Manifesto, Paolo Bevilacqua, Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, commenta l’ipotesi della trasformazione delle Università in Fondazioni: Bevilacqua sulla legge 133 Manifesto.txt 

Su Famiglia Cristiana, un articolo critico sui tagli e l’assenza di riforme: Famiglia Cristiana 28_09.doc

Potete scaricarli o leggerli online qui sotto:   

 

Articolo per articolo, così la legge
133 avvia la spoliazione dell’università
Piero Bevilacqua

Com’è stato da più parti osservato,
la legge 133 sull’Università non è un provvedimento di riforma. E’
un pesante intervento di sottrazione di risorse finanziarie, senza
alcuna altra pretesa che di far cassa, come se l’Università fosse
qualche vecchio ente del Parastato. Eppure, in quel provvedimento,
apparentemente dimesso e puramente finanziario, è contenuto forse il
principio più gravemente sovvertitore dell’ordinamento universitario
che sia mai stato concepito sinora. La possibilità – formulata
nell’art. 16 della legge – di trasformare le università pubbliche in
fondazioni di diritto privato è infatti la corda che viene offerta
ai vari atenei, senza più risorse, per impiccarsi definitivamente
vendendosi al migliore offerente.

Occorre svolgere almeno due
considerazioni in merito a questa straordinaria novità storica che
non ha avuto neppure l’onore di un dibattito parlamentare e su cui
poco sono intervenuti anche i commentatori abituali delle cose
italiane. Come ha osservato un docente di diritto comparato,
Alessandro Somma, nella legge ci sono elementi evidenti di
incostituzionalità. Ad esempio l’articolo 16 si apre con un inciso
tanto perentorio quanto falso: la trasformazione in fondazione attua
l’art. 33 della Costituzione (art. 16 comma 1). Ma in quell’articolo
la Costituzione afferma il contrario: «Enti e privati hanno il
diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri
per lo Stato». E qui siamo di fronte, più che alla costituzione di
un istituto di educazione privato, alla trasformazione di un ente
pubblico in ente privato, con notevoli oneri per lo Stato. Infatti la
legge 133 stabilisce che le università fondazione «subentrano in
tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio
dell’Università» e che «al fondo di dotazione delle fondazioni
universitarie è trasferita, con decreto dell’Agenzia del demanio, la
proprietà dei beni immobili già in uso alle Università
trasformate» (art. 16 comma 2). E aggiunge: «Gli atti di
trasformazione e di trasferimento degli immobili e tutte le
operazioni ad essi connesse sono esenti da imposte e tasse» (art. 16
comma 3).

Perfetto! Il patrimonio storico
dell’università, talora costituito da beni architettonici di pregio,
mobilio antico, biblioteche uniche e preziose, eccetera può essere
acquisito da privati e questi sono esentati dal pagare le tasse di
trasmissione! Altro che oneri per lo Stato, questa è spoliazione! Se
volevamo avere qualche altro segno dell’arroganza e della rozzezza
del legislatore odierno siamo stati serviti.

Ma che cosa dobbiamo aspettarci dalle
Fondazioni private che dovrebbero garantire la prosecuzione
dell’insegnamento universitario? Se questa trasformazione si dovesse
effettivamente verificare, quale imprenditore privato sarebbe
disponibile, in Italia, a finanziare, poniamo, letteratura italiana,
storia greca, lingua latina? Non parliamo di etruscologia o delle
varie lingue e civiltà dell’Oriente antico in cui, peraltro, gli
studiosi italiani vantano eccellenze universalmente riconosciute. Ma
che cosa succederebbe, nel giro di qualche decennio, a tutti i nostri
saperi umanistici ? E davvero l’Italia può liquidare l’intero suo
patrimonio di civiltà per far cassa oggi, o per seguire gli ultimi
cascami di una ideologia finita nella vergogna del tracollo
finanziario e degli aiuti di Stato?

C’è un altro aspetto poco considerato
in questa provinciale e pacchiana volontà modernizzatrice che crede
di strizzare l’occhio alla grande America. Non ci divide da quel
Paese – peraltro così incomparabilmente generoso con gli studi e la
ricerca – soltanto una diversa storia del capitalismo industriale. Ma
anche una diversa storia delle rispettive classi dirigenti. Da noi lo
Stato ha fondato l’industria moderna, organizzato il credito, guidato
e promosso la costruzione delle grandi infrastrutture (ferrovie,
telefonia, autostrade), salvato l’industria quando la Grande Crisi
l’ha travolto attraverso l’Iri, pensato al petrolio come risorsa
strategica attraverso l’Eni. Si può avere una controprova storica
del ruolo giocato dallo Stato considerando le perdite gravi subite
dall’industria italiana in questi ultimi 25 anni di furore
liberistico e di abbandono di una politica economica qualunque. E a
imprenditori che hanno alle spalle una storia di cosi scarsa
lungimiranza nell’intravedere i bisogni del sistema-Paese dovremmo
affidare la gestione degli studi universitari?

Ricordo infine un aspetto poco noto
dell’organizzazione degli studi italiani. E’ ancora lo Stato a
sostenere – in forma indiretta – perfino alcuni dei più prestigiosi
atenei privati, come la Bocconi e la Luiss. Qui, infatti, vi
insegnano docenti il cui stipendio intero è pagato dalle Università
pubbliche, mentre gli atenei privati pagano una modesta integrazione.
Dunque è ancora lo Stato che – in questo liberismo maccheronico –
finanzia la concorrenza. Credo che sia venuto il momento, nel nostro
Paese, di rammentare con più coraggio quanta ideologica arroganza si
manifesti, anche per ignoranza, nell’elogio della scuola e
dell’Università privata.

* Ordinario di Storia contemporanea
all’Università di Roma La Sapienza

 

 


 

FAMIGLIA CRISTIANA – 29 ottobre 2008

VIA AUTORITARIA E DECRETI LEGGE NON
FANNO BENE ALLA SCUOLA E AL PAESE

NON CHIAMIAMO RIFORMA UN
SEMPLICE TAGLIO DI SPESA

Secondo il filosofo Antiseri, «il
grembiulino e il voto di condotta sono condivisibili, ma sono cose
marginali, direi futili. Colpire la scuola e l’università significa
colpire il cuore pulsante di una nazione».

Secondo gli esperti, nell’andamento
dell’economia il capitale umano vale fino all’80 per cento della
ricchezza. È ovvia, quindi, l’importanza che l’istruzione ha
nello sviluppo. Eppure, in Italia c’è chi fa finta d’ignorarlo.
E non ci si preoccupa se due terzi della popolazione, tra i 16 e 65
anni, presenta "insufficiente competenza alfabetica funzionale"
(cioè, ha difficoltà 17 volte più della media europea a usare il
linguaggio scritto per un ragionamento, anche modesto).

Studenti e professori hanno seri motivi
per protestare. E non per il voto in condotta o il grembiulino (che
possono anche andar bene), ma per i tagli indiscriminati che
«colpiscono il cuore pulsante di una nazione», come dice il
filosofo Dario Antiseri. Nel mirino c’è una legge approvata di
corsa, in piena estate. La dicitura è roboante: "Riforma della
scuola"; più prosaicamente "contenimento della spesa",
a colpi di decreti, senza dibattito e un progetto pedagogico
condiviso da alunni e docenti.

Non si garantisce così il diritto allo
studio: prima si decide e poi, travolti dalle proteste, s’abbozza
una farsa di dialogo. Il bene della scuola (ma anche del Paese)
richiede la sospensione o il ritiro del decreto Gelmini. Per senso di
responsabilità; l’ostinazione, infatti, è segno di debolezza. Né
si potrà pensare di ricorrere a vie autoritarie o a forze di
polizia. Un Paese che guarda al futuro investe nella scuola e nella
formazione, razionalizzando la spesa, eliminando sprechi, privilegi e
"baronìe", nonché le "allegre e disinvolte
gestioni".

Ma i tagli annunciati sono pesanti:
all’università arriveranno 467 milioni di euro in meno. Nei
prossimi cinque anni il Fondo di finanziamento si ridurrà del 10 per
cento. Solo il 20 per cento dei professori che andranno in pensione
verrà sostituito. Come dire: porte chiuse all’università per le
nuove generazioni.

Tremonti ha dettato la linea, la
volenterosa Gelmini è andata allo sbaraglio, spacciando per riforma
la scure sulla scuola. Nessun Governo era giunto a tanto, anche se i
vari ministri dovevano sempre chiedere in ginocchio le briciole al
Tesoro. Oggi l’università italiana ha una "produttività"
pessima, ha il record mondiale dei fuori corso, la metà delle
matricole non arriva alla laurea. Per i dottorati di ricerca stiamo
peggio della Grecia: 16 ogni mille abitanti (in Francia sono 76 e in
Germania addirittura 81).

Che contributo si può dare alla
formazione del capitale umano tra resistenze e tagli di bilancio?
Pochi sanno che lo stipendio dei professori universitari non è
regolato da contratto nazionale ma, come per magistrati e
parlamentari, aumenta automaticamente ogni due anni, senza controllo.
Gli stipendi si portano via l’88 per cento del Fondo dello Stato
alle università. Percentuale destinata a salire con i tagli, con
grave danno a didattica e ricerca. La riforma dell’istruzione la
chiedono tutti. Nessuno, però, la ritiene una "priorità".
Si procede solo con slogan nelle piazze e improvvisazioni politiche.

Un Paese in crisi trova i soldi per
Alitalia e banche: perché non per la scuola? Si richiedono sacrifici
alle famiglie, ma costi e privilegi di onorevoli e senatori restano
intatti. Quando una Finanziaria s’approva in nove minuti e mezzo;
quando, furtivamente, si infilano emendamenti rilevanti tra le pieghe
di decreti legge, il Parlamento si squalifica. Ci siamo appena
distratti, che già un’altra norma "razziale" impone ai
medici di denunciare alla polizia gli immigrati clandestini che
bussano al pronto soccorso.

 

 

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